Libro XXI

Eventi principali: Achille spinge i Troiani verso il fiume Scamandro e continua a farne strage. Il fiume, pieno di corpi, si indigna e decide di porre un freno a quella furia omicida; le sue acque si gonfiano e inseguono Achille, che teme di morire annegato. Ma Era chiama Efesto in suo aiuto, il quale fa divampare un grande incendio che obbliga il fiume a ritirarsi. Achille allora continua la sua furiosa strage di Troiani, che fuggono verso la città. Agenore prova ad uccidere Achille, ma non riesce a scalfirne l’armatura. Apollo porta in salvo Agenore e ne prende le sembianze, facendosi rincorrere in lungo e in largo da Achille e permettere che i Troiani nel frattempo si rifugino dentro le mura.

Achille inseguito dal fiume Xanto - Iliade
…e di sùbito a lui vicini Posidone e Atena
vennero, e stettero, assunta sembianza mortale; e la mano
strettagli nelle mani, conforto gli dier di parole….

Achille fa strage di Troiani presso il fiume Xanto (Scamandro); qui trova Licaone, figlio di Priamo e fratellastro di Ettore, che invoca la sua pietà, ma Achille è implacabile: lo uccide e lo butta nel fiume.

Ma poi che giunser presso la bella corrente del fiume,
del vorticoso Xanto, cui padre fu Giove immortale,
quivi in due parti li ruppe, spingendone l’una sul piano,
verso la rocca d’Ilio, dov’erano innanzi alla furia
d’Ettore, il giorno innanzi, fuggiti sgomenti, gli Achivi.
Si rovesciarono qui, fuggiaschi; e caligine fitta
Era distese a salvarli, su loro.
Ma furono gli altri
sospinti verso il fiume profondo, dai gorghi d’argento.
Giù con fracasso grande piombarono: l’alta corrente
strepito diede, cupe le rive rombarono attorno.
Quelli, nuotavano urlando qua, là, mulinati dai gorghi.
Come allorché locuste, dall’impeto spinte d’un fuoco,
fuggiasche verso un fiume svolazzano: surta improvvisa,
arde la fiamma implacata, si gitlano quelle nei gorghi:
tal, per la furia d’Achille, la fonda corrente del Xanto
d’uomini, di cavalli s’empiea, di confuso tumulto.

E quel divino, lasciò, li sopra la sponda, la picca
poggiata ai tamerischi, balzò, pari a un Nume, nell’acqua,
sola stringendo la spada, volgendo in cuor suo crudi scempi.
Colpiva tutto in giro: la spada feriva, sorgeva
misero il grido,.rossi correvano i gorghi di sangue.

Come allorché, dinanzi l’immane delfin, gli altri pesci
fuggono, e negli anfratti s’accalcan d’un porto securo,
tutti sgomenti, ché quanti ne giunge, l’inghiotte vorace:
similemente i Troiani, pei flutti del fiume tremendo,
si rannicchiavano sotto le ripe. Or, poi ch’egli le mani
ebbe di strage stanche, dai vortici dodici trasse
giovani vivi, che il fio pagasser di Patroclo spento
.
Fuori dall’acqua, come cerbiatti sgomenti, li trasse,
e dietro il dorso a tutti le mani avvinghiò con le cinghie
ch’essi portavan, polite, sovresse le tuniche molli:
quindi li diede ai compagni, che sopra le navi ricurve
li conducessero. Ed egli proruppe di nuovo alla strage.

Qui si trovò con uno dei figli di Priamo a fronte,
con Licaone, fuggiasco dal fiume. Già un tempo rapito
in un agguato notturno l’avea dai poderi del padre.
Esso d’un caprifico tagliava le rame novelle
con l’affilata scure, per farne d’un carro le sponde,
quando su lui piombò l’improvviso flagello d’Achille,
che lo mandò, sovresse le navi, per venderlo a Lemno,
e ne die’ prezzo Eumèo, figiuol di Giasone. D’Eumèo
quindi un ospite, Etione d’Imbro, con molti presenti
lo riscattò, che ad Arisba divina lo addusse; e di furto
quindi fuggito, era giunto di nuovo alla casa del padre.
Undici giorni potè’, scampato da Lemno, godere
la compagnia dei suoi cari; perché nel duodecimo, un Nume
sotto le mani d’Achille di nuovo il gittò, che doveva
d’Ade alla casa spedirlo, sebbene a mal grado vi andasse.
Come lo vide, Achille veloce di pie’ , tutto ignudo,
senza né scudo né elmo
— né lancia stringeva, ché a terra
tutto gittato avea: ché dal fiume fuggendo, sudore
Io macerava, e grave stanchezza fiaccava i ginocchi —
tutto crucciato, cosí si volse al magnanimo cuore:
«Ahimè!, che meraviglia mai debbon vedere questi occhi!
Ora davvero i Troiani magnanimi a cui diedi morte
risorgeranno di nuovo dall’ètere fosco d’Averno,
quando è tornato costui, che, il giorno fatale schivando,
già fu venduto in Lemno; né freno gli pose l’abisso
dello spumante mare, che molti, a malgrado, trattiene.
E allora via, di nuovo la punta di questa mia lancia
voglio che gusti: vo’ darmi ragione, e vedere se proprio
anche di lì tornerà nel medesimo modo, o se freno
porgli saprà l’alma terra, che i più valorosi trattiene».
Questo pensava, a pie’ fermo restando: ché tutto sgomento
s’avvicinava l’altro, volea le ginocchia abbracciargli:
ch’egli schivare anelava la livida Parca e la Morte.

Dunque, la lunga zagaglia vibrò, per trafiggerlo, Achille;
ma quegli si chinò, si lanciò, gli afferrò le ginocchia,
si, che, sovresso il dorso la lancia volandogli, a terra
restò confitta, invano bramosa di suggere sangue.
Quegli con l’una mano stringealo ai ginocchi, e pregava:
l’aguzza asta con l’altra stringeva, né pur la lasciava;
e il labbro schiuse, e queste gli volse veloci parole:
«Io ti scongiuro, Achille: pietà di me abbi e rispetto:
essere io devo per te come un supplice sacro, o divino:
ch’io presso te primamente cibai di Demètra la spica,
quel di che nel podere mio bello prigione mi festi,
e mi vendesti, recandomi, lungi dal padre e dai cari,
nella divina Lesbo: ché avesti da me cento bovi.
Ora, tre volte tanti ne avrai di riscatto. È pur questa
la dodicesima.luce, che io, dopo molti travagli,
giunto era in Ilio; ma il fato funesto di nuovo or mi gitta
sotto le mani tue. Sarò bene io l’odio di Giove,
che in tua balia di nuovo mi pone! Ah!, che a vita si breve
mi generò d’Altào vegliardo la figlia Laòte,
d’Altào, ch’era sovrano dei Lèlegi vaghi di pugne,
sul Satnioento, aveva in Pèdaso eccelsa la reggia.
Priamo s’ebbe la sua figliuola, fra l’altre sue spose;
e due da lei nascemmo, che tu vuoi trafiggere entrambi.
L’un, tra le prime schiere dei fanti abbattesti: il divino
Polidoro, che tu trafiggesti col cuspide aguzzo:
ora la mala mia sorte sarai qui per me, ché scampare
dalle tue mani, ove un dèmone infesto m’ha spinto, dispero.
Ma questo ancor ti dico, né chiuso rimanga il tuo cuore:
non mi finir: ché portato non m’ha l’alvo stesso onde nacque
Ettore, quegli che al tuo compagno diletto die’ morte».
Dunque cosí diceva di Priamo il fulgido figlio
con supplichevoli accenti; ma fu la risposta implacata:

«Misero te, non propormi, promessa non far di riscatti.
Prima che il dì fatale scendesse su Patroclo, piacque,
grato al mio cuore fu, risparmiar dei Troiani la vita,
si ch’io molti pur vivi li presi per venderli. Adesso,
niuno potrà sfuggire la morte
, di quanti un Celeste
sotto le mani mi gitti, dinanzi alle mura di Troia,
niun dei Troiani, e meno d’ogni altro di Priamo i figli.
Misero, e dunque muori tu pure: a che sì ti lamenti?
Patroclo anch’egli è morto, che tanto di te più valeva.
Ed anche me, non vedi, come io sono bello e gagliardo?
E valoroso è mio padre, mi diede alla luce una Diva;
eppure, anche su me la Morte e l’indomita Parca
o all’alba, o a mezzo il giorno, o a vespero un di piomberanno
quando la vita alcuno nel cuor della zuffa rapirmi
saprà con l’asta, oppure dall’arco lanciando uno strale».
Questo egli disse; e all’altro mancarono cuore e ginocchia,
Abbandonò la lancia, s’accosciò, protese le braccia
supplici; e Achille fuori traendo l’aguzza sua spada,
presso al collo colpi la clavicola, e tutta v’immerse
la spada
a doppio taglio: Licàone giacque disteso
al suolo; e negro il sangue scorreva, e bagnava la terra.
Achille per un piede lo prese, lo scagliò nel fiume,
che lo rapisse, e, imprecando, parlò queste alate parole:
«Rimani lì fra i pesci, che, senza pensare a sepolcro,
della tua piaga il sangue verranno a lambir: ché tua madre
te non porrà sul giaciglio per piangerti: sì lo Scamandro
ti rapirà coi suoi gorghi nel grembo infinito del mare,
sì lancerà, fra i guizzi dei torbidi flutti, uno squalo,
di Licaóne a cibare le candide polpe. Morite
tutti, sinché la sacra di Troia città non si espugni,
in fuga voi correndo, correndovi io dietro a sterminio.

Né lo Scamandro dal corso veloce, dai gorghi d’argento,
vi salverà, per quante gli offriate ecatombi di tori,
o vivi ancor gittiate veloci corsieri nell’onde:
no, non per questo potrete sfuggire alla morte; ma tutti
espierete di Patroclo il fine,
e gli Achei che uccideste
presso alle rapide navi, mentre ero lontano dal campo».

Il fiume è indignato dalla strage di Troiani che Achille sta compiendo, e pensa a come fermarlo. Intanto Achille uccide Asteropeo.


Cosí disse. Ed il fiume s’accese per questo di sdegno;
e divisava come potesse d’Achille divino
fine alla zuffa porre, salvar dall’eccidio i Troiani.

Ed il Pelide, intanto, vibrando la lunga sua lancia,
con omicida furia proruppe sopra Asteropèo,
figlio di Pelegóno. L’ Assio dalle belle fluenti
padre, madre gli fu Peribèa, d’Acessàmeno figlia,
la prima nata, stretta d’amore col fiume profondo.
Gli balzò sopra Achille, di contro dal fiume gli stette
l’altro, due lancie vibrando, ché furia nel cuor gl’infondeva
Xanto, furente di sdegno pei giovani tanti trafitti,
cui sterminava Achille, cuor senza pietà, nei suoi gorghi.
Or, poi che l’uno all’altro, movendosi, furono presso,
prese per primo Achille veloce divino a parlare:
«Chi sei tu mai, di che gente, che muovere ardisci a me contro?
Alla mia furia, solo si oppone chi nacque a sciagura».
E di Pelègono il figlio fulgente cosí gli rispose:
«Pellde, animo eccelso, perché la mia stirpe mi chiedi?
Nella Peonia io nacqui remota, dal fertile suolo,
ed i Peóni conduco che vibrano cuspidi lunghe.
Questa è l’undecima aurora che giunsi alla rocca di Troia.
Della mia stirpe fu capo l’Assio da le belle fluenti,
il più bello dei fiumi che scorrono sopra la terra:
ei generò mio padre Pelègono, lancia gagliarda:
dicon ch’io nacqui da lui. Ma or, prode Achille, alla zuffa!».
Disse cosí con piglio minace. Ed Achille divino
alto vibrò la lancia di fràssino pelio; e d’un colpo
Asteropèo lanciò due zagaglie: ch’egli era ambidestro.

Una zagaglia colpi lo scudo; né valse a forarlo,
perché l’oro faceva riparo, foggiato dal Nume:
a fior di pelle Achille scalfiva nel gómito destro
l’altra, e sgorgò nero sangue: volando troppo alta, la lancia,
si conficcò nella terra, restò con la brama del sangue.
Ecco, a sua volta, diritta la lancia di frassino Achille
scagliò contro il nemico,
bramoso di dargli la morte;
né giunse il colpo a segno, bensì l’alta ripa percosse,
e nelle zolle restò, sino al mezzo confítta, la lancia.
Ed il Pelide, dal fianco fuor tratta l’aguzza sua spada,
gli balzò sopra furente; né l’altro potè dal terreno
con le gagliarde mani strappare la lancia d’Achille.
Tre volte la scrollò, ne l’ansia di svellerla fuori,
tre gli mancò la forza. Pensò di spezzare, una quarta,
il fràssino d’Achille, del corpo fece arco a scalzarlo;
ma con la spada prima gli tolse la vita il Pelide.
Vicino all’ombelico fu il colpo: ne usciron l’entragne
tutte, si sparsero al suolo: un rantolo usci dalla gola,
tenebra avvolse gli occhi. Sul petto balzatogli Achille,
l’alma gli tolse, e queste parole superbe gli disse:
«Giaci ora qui: coi figli lottar del possente Cronide,
è troppo dura cosa, sia pure a chi nacque da un fiume.

Tu ti dicevi figlio d’un fiume dall’ampia corrente:
io meno vanto che sono progenie del Re dei Celesti:
m’ha generato un uomo di molti Mirmidoni sire,
Pèleo, d’Èaco figlio; ed Èaco nacque da Giove.
Quindi, se Giove più vale dei fiumi che corrono al mare,
anche di Giove i figli più valgon dei figli d’un fiume.
E un fiume anche ora, qui, ricco d’acque, t’è presso, se mai
possa giovarti. Ma niuno pugnare può mai col Cronfde:
non lo pareggia di forze neppure il possente Achelòo,
neppur la possa immane d’Ocèano dai gorghi profondi,
da cui pur tutti i fiumi fluiscono, e l’acque del mare
tutte, e le fonti tutte, con tutte le grandi sorgive.
E pure, anch’egli teme di Giove la folgore orrenda,
teme l’orrendo tuono, quaad’esso dal cielo rimbomba.
Detto cosi, dalla ripa divelse la lancia di bronzo,
ed il corpo abbandonò, poiché gli ebbe tolta la vita,
sovra la sabbia proteso, bagnandolo i torbidi flutti.
E brulicarono al morto d’attorno le anguille ed i pesci
che divoravan le polpe sue grasse, rodevano i nervi.

Achille uccide i cavalieri Peoni, ma il fiume Scamandro, assunta forma d’uomo, lo rimprovera e gli dice di smettere di riempire le sue acque di cadaveri. Si rivolge anche ad Apollo, lo prega di aiutare i Troiani almeno finché non arriverà la sera, come aveva promesso a Giove.


Sui cavalieri Peóni balzò quindi infesto il Pelide,
che si sbandarono iri fuga lunghesse le rive del fiume,
poi ch’ebber visto sotto le mani e la spada d’Achille
nella terribile zuffa cadere il più forte dei loro.
Quivi Tersiloco e Midone e Astipilo caddero spenti,
ed Ofeleste e Mneso ed Enio con Trasio. Ed uccisi
molti Peóni ancora qui avrebbe il veloce Pelide,
se non gli avesse parlato pieno d’ira il fiume profondo,
che, forma assunta d’uomo, tal voce levò dai suoi gorghi:

«Achille, più d’ogni altro sei forte; ma compi misfatti
orridi più d’ogni altro: ché sempre t’assistono i Numi.
Se t’ha concesso Giove che stermini tutti i Troiani,
cacciali fuor dai miei vortici, esercita al pian le tue gesta:
ché di cadaveri colme son già le mie pure fluenti,

né posso più la mia corrente sospingere al mare,
mi fanno inciampo i morti, né tu dalla strage desisti.
Smetti, su via, ch’io sono sgomento, possente signore!».
E gli rispose Achille dai piedi veloci, e gli disse:
«Li caccerò, come, o divo Scamandro, desideri, al piano;
ma non tralascerò l’eccidio dei Teucri spergiuri,
prima che nella città li spinga, e con Ettore stia
a fronte a fronte, ch’egli m’uccida, o da me resti ucciso».
Detto cosi, sui Troiani balzò come un dèmone infesto.
Ma si rivolse il fiume dai gorghi profondi ad Apollo:
«Ahimè, di Giove figlio dall’arco d’argento, il volere
dunque del figlio di Crono dimentichi tu, che t’impose
presso restare ai Troiani, proteggerli, sin che non giunga
Vespero a ombrare col tardo tramonto le fertili zolle?».
Mentre diceva, Achille feroce piombò dalla ripa
giù nel mezzo del fiume. E il fiume, gonfiandosi a furia,
sopra gli si lanciò: mulinava, scagliava le ondate,

spingeva i corpi uccisi per mano d’Achille, che fitti
lo riempievano, al piano, con lungo muggito di toro,
fuor li gittava; e i vivi lunghesso le belle fluenti
salvi rendea, celati negli ampi recessi dei gorghi.

Il fiume Scamandro perseguita Achille, che teme per la sua vita e si rivolge agli dèi; non vuole fare una fine ignobile. Atena ed Era gli danno conforto, ma il fiume continua a tentare di sommergerlo.

Con traballio terribile il flutto attorceasi ad Achille,
piombava la corrente, cozzava allo scudo, né i piedi
poggiare al suol lasciava:
si ch’egli afferrò con le palme
un grande olmo robusto; ma quello, sbarbato piombando,
tutta schiantò la ripa, coperse le belle fluenti
con le fronzute rame, d’un argine freno le pose,
tutto piombandovi dentro. Balzato dai vortici, Achille
via si lanciò per il piano, volando sui piedi veloci,
per lo spavento. Né il Nume possente ristie’; ma la negra
cresta levando, balzò contro lui,
per frenare d’Achille
l’impeto, e lungi tenere dai Teucri l’eccidio fatale.
Ed il Pelide die’ un balzo, quanta è la gittata d’un’asta:
l’impeto suo fu come d’un’aquila negra predace,
che vince quanti sono gli alati, di forza e di volo.
Simile a questa, proruppe. Squillava terribile il bronzo
sopra il suo petto; e, di sghembo, fuggiva dinanzi a Scamandro.
Ma rotolando quello seguialo con alto rimbombo.
Come talora dall’acqua profonda di cupa sorgiva
un fontaniere deduce per orti e filari un ruscello,
e con la marra alla mano via spazza gl’intoppi dal fosso:
l’onda fluisce, dinanzi le rotolan tutti i lapilli,
quella, velocemente scorrendo, pel suolo declive
con un gorgoglio scende, precede chi pure la guida:
sempre cosí le ondate del fiume giungevano Achille
benché veloce ei fosse:
più valgon gli Dei che i mortali.
E quante volte Achille gagliardo coi piedi tentava
stare, ed opporre alla forza la forza, e vedere se tutti
sono a inseguirlo i Numi che reggon l’impero del cielo:
tante un’immane ondata del fiume rigonfio di pioggia
colpiva a lui dall’alto le spalle. E balzava ei furente
alto sui pie’. Ma il fiume, scorrendo rapace, i ginocchi
a lui fiaccava, e, sotto, dai pie’ gli rubava l’arena.
Ed il Pelfde un lagno mandò,
gli occhi al cielo rivolse:
«Deh, Giove padre, perché nessuno dei Numi m’assiste,
si ch’io mi salvi dal fiume?
Poi venga qualsiasi sciagura!
Niun altro dei Beati d’Olimpo è cagione di questo,
ma la mia madre stessa, che me lusingò con inganni,
quando mi disse che presso le mura dei Teucri guerrieri
io sarei morto sotto le rapide frecce d’Apollo.
Ettore ucciso m’avesse, che tutti qui vince in valore!
Un prode avrebbe ucciso, un prode sarebbe caduto.
Ora è destino invece che a misera morte io soccomba,
chiuso nel fiume grande, al par d’un garzone porcaro,
via dal torrente travolto, mentr’egli d’inverno lo guada!».
Disse; e di sùbito a lui vicini Posidone e Atena
vennero, e stettero, assunta sembianza mortale; e la mano
strettagli nelle mani, conforto gli dier di parole.
E cominciò Posidone, il dio dei tremuoti, e gli disse:
«No, non tremare cosi, non ti sgomentare, Pelfde!
Tali noi due Celesti siam qui per te giunti al soccorso:
Pàllade Atena, ed io Posidone; e Giove ci approva;
poi che destino non è che a un fiume soccomber tu debba:
questo, vedrai, dovrà tornare ben presto a bonaccia.
Noi ti daremo poi, se tu vuoi seguirlo, un consiglio.
Dall’accanita zuffa tu non trattenere le mani,
sin ch’entro ai muri d’Ilio non cacci la turba ch’or fugge;
non ritornare alle navi, se ad Ettore prima non abbia
tolta la vita: il vanto d’ucciderlo noi ti daremo»
.
E cosí detto, i due fra i Celesti tornarono; e Achille
via si lanciò, poi che i Numi cosí l’animarono, al piano.

Dell’acqua straripata il pian tutto quanto era colmo,
vi galleggiavano sopra molte armi di giovani uccisi,
molti cadaveri. E Achille s’intese balzar le ginocchia:
alto s’avventò sopra le ondate, ché più noi frenava
l’ampia corrente del fiume: tale impeto Atena gl’infuse.

Né la sua furia frenò Scamandro; ma sempre più irato,
contro il Pelide raccolse la forza del rapido flutto;

ed al soccorso, levando la voce, chiamò Simoenta:
«Caro fratello, in due sbarriamo la strada a quest’uomo,
o che ben presto sarà la rocca di Priamo distrutta
dalla sua zuffa, né i Teucri resister potranno alla furia.
Dunque, su, presto, accorri, soccorri, nei flutti raccogli
dalle sorgive l’acqua, prorompano gonfi i torrenti,
leva sublimi i tuoi gorghi, fa’ ch’alto s’innalzi un frastuono
di tronchi, di macigni, ché freno si ponga al selvaggio
ch’ora imperversa, e crede di forza esser pari ai Celesti.
Ma né la forza, dico, né a lui gioverà la prestanza,
né l’armi belle, che presto, di questa palude nel fondo
giacer dovranno, sotto la melma nascoste; ed io stesso
lo coprirò d’arena, di ghiaia e belletta d’attomo
addenserò gran mucchi; né più troveranno gli Achiví
l’ossa:
di tal congerie nascoste le avrò di fanghiglia:
qui gli faranno il sepolcro; e il tumulo alzato sovr’esso
qui troveranno, quando l’esequie faranno, gli Achivi».
Disse, e balzò sul Pelide con impeto d’ardui flutti,
romoreggiando cosparso di schiuma di sangue di morti.

Era, temendo per la vita di Achille, chiede ad Efesto di aiutarla scatenando un gran fuoco. Le acque del fiume si prosciugano, e allora Scamandro desiste e promette ad Era di non ostacolare più Achille.


Dunque, il flutto cosí del fiume rigonfio di pioggia
si sollevava purpureo, già già ghermiva il Pelide,
quando, per lui temendo, che il fiume dai vortici fondi
via non l’avesse a rapire, levò la diva Era un gran grido,
e tale appello a Efesto,
diletto suo figlio, rivolse:
«Scuòtiti, o figlio mio, pie’ torto! Trovammo un rivale,
il vorticoso Xanto, ben degno che teco s’affronti.
Corri al soccorso, corri, fa’ ch’alta la fiamma rifulga!
Io di Zefiro intanto, di Noto che limpido fulge
susciterò, correndo sul mare, una fiera procella,
che dei Troiani avvampi gli sparsi cadaveri e l’armi,
spanda l’orror dell’incendio. E tu, su le rive di Xanto
gli alberi brucia, avventa nell’alveo stesso la fiamma.

Né da melate parole lasciarti piegare, o da preci,
né dall’impeto tuo desistere: solo quando io
ti lancio un grido, frena l’indomita furia del fuoco».
Com’ebbe detto, Efèsto lanciò l’ardentissimo fuoco.
Prima la fiamma avvampò la pianura, bruciando le salme,
quivi distese a mucchi, dei Teucri spenti da Achille,
l’acqua limpida stette, tornò tutto il piano rasciutto.
Come la Bora d’Autunno sul campo irrigato di fresco
spira, e d’un tratto lo asciuga: ne gode nel cuore il bifolco;
tutta la piana cosí s’asciugava, bruciavan le salme.
E contro il fiume allora la lucida fiamma rivolse.
Arsero a un tratto gli olmi, i salici, le tamerici,
arsero il loto, il cipero, il giunco, che lungo le belle
acque correnti del fiume crescevano in fitto rigoglio:
e boccheggiarono tutte le anguille ed i pesci, che spersi
guizzavano tra i gorghi, qua e là, per le belle fluenti,
dall’alito cruciati, dall’opera fiera d’Efèsto.
Arsa la forza del fiume struggevasi; ond’esso proruppe:
«Niuno dei Numi, Efèsto, potrebbe con te misurarsi:
né quando avvampi cosí di fuoco, potrei contrastarti.
Tronca l’offesa; e Achille via scacci i Troiani, se vuole,
dalla città: che cosa m’importa di risse e soccorsi?».
Disse: ché ardea pel fuoco, bolliano le belle fluenti.
Come un lebète ribolle, se l’urge gran vampa di fuoco,
liquefacendo il grasso d’un porco adiposo, e trabocca
tutto dattorno, e sotto s’ammucchiano l’aride legna:
bruciavano cosí pel fuoco le belle correnti,
l’acqua bolliva, né più voleva fluir, s’arrestava:
la consumava il fiato, la furia d’Efesto sagace.
E queste allora ad Era parole di prece rivolse:
«Era, perché su la mia corrente tuo figlio infierisce
più che su ogni altra? Eppure, non sono colpevole io tanto,
quanto son gli altri tutti che mosser dei Teucri al soccorso!
Io, quanto a me, poi che tu Io brami, son pronto a ristarmi;
ma dall’offesa anch’egli desista; ed inoltre io ti giuro
che più non terrò lungi dai Teucri il giorno fatale,

né pur se tutta Troia si strugga, nel fuoco vorace
arsa, e alle fiamme la diano i prodi guerrieri d’Acaia».
Ed ecco, Era l’udì, la Dea dalle candide braccia,
e al figlio suo diletto si volse con queste parole:
«Inclito figlio, Efèsto, desisti: poiché non conviene
per i mortali dar tanto martirio ad un Nume immortale».
Com’ebbe detto, spense Efèsto la furia del fuoco;
e per le belle fluenti declinò retrogrado il flutto.

Gli dei si azzuffano tra loro, mentre Giove assiste dall’alto. Poi tornano tutti all’Olimpo. Apollo va presso le mura di Troia, temendo che i Danai la espugnino quel giorno. Achille intanto continua ad uccidere Troiani.


Dunque, fiaccata che fu la furia del Xanto, i rivali
stettero: ch’Era, sebbene crucciata, li aveva frenati.
Ma divampò tremenda la zuffa fra gli altri Celesti,

impetuosa: in due schiere la furia dei cuor li spingeva.
Gli uni piombaron sugli altri con alto fracasso; e un rimbombo
corse per l’ampia terra, dal cielo rispose un clangore.
Udí Giove, in Olimpo seduto; ed il cuore gli rise
di contentezza, vedendo confusi i Celesti in battaglia.

Sparve ben presto il terreno fra loro. Die’ il segno alla zuffa
Ares, che frange gli scudi, stringendo una lancia di bronzo:
primo balzò sopra Atena, con queste parole d’obbrobrio:
«Zecca molesta, perché sospingi a contesa i Celesti,
mai di protervia sazia, ché il cuor temerario ti spinge?
Non ti ricordi quando spingesti il Tidide a ferirmi,
e tu medesima, l’asta lucente vibrando diritta,
contro di me la scagliasti, la cute ferendomi? Adesso
spero che il fio mi dovrai pagar dell’offesa d’allora».
Disse. Ed all’egida volse, di frange tutta orrida, un colpo.
Schermo tremendo è quello: neppur la saetta di Giove
lo frange: Are omicida vibrò, per colpirlo, la lancia;
ma si ritrasse Atèna, con mano gagliarda un macigno
pres
e, gigante, negro, tutto aspro, che al suolo giaceva,
e lo teneva, la gente d’un tempo, a confine dei campi.
Ares colpì con questo nel collo, e gli sciolse le membra.
Precipitando, copri sette iugeri: intrisa la chioma
fu nella polvere, l’armi tonaron sul corpo; ed Atena
rise, e veloci queste parole, esaltandosi, disse:
«Sciocco, non te lo sei ricordato, quanto io più gagliarda
sono di te, che ardisti venir meco a prova di forza!
Ora cosí devi tu scontar di tua madre le colpe,
che, irata, a mal consiglio s’attenne, perché degli Achivi
abbandonate le parti, difendi gl’iniqui Troiani».
E, così detto, altrove rivolse le fulgide luci.
Ed Afrodite, la figlia di Giove, preso Ares per mano,
via lo guidò, che gemeva
, che appena traeva il respiro.
Era li vide allora, la Diva dall’òmero bianco,
e favellò con queste veloci parole ad Atena:
«Miseri noi, figlia invitta di Giove dell’ègida sire,
quella molesta zecca di nuovo è sul campo, e via tragge
Are omicida dal crudo furor della pugna. Or tu accorri».
Disse cosi. Si lanciò, gioendo nell’anima, Atena,
sopra le fu, la man dura protese a percòterle il seno:
e venne meno a quella lo spirto
, piegar le ginocchia.
Giacquero entrambi cosi, sovresse le fertili zolle,
e sovra loro Atena parlò queste alate parole:
«Oh!, se i guerrieri tutti venuti dei Teucri al soccorso
fossero tali, quando s’azzuffan con gli uomini d’Argo,
fossero arditi cosi, cosí validi, come Afrodite
venne al soccorso d’Are, di fronte movendo al mio sdegno!
Da lungo tempo avrebbe già termine avuto la guerra,
già rovesciata avremmo la rocca saldissima d’Ilio».
Cosí parlava; ed Era dall’omero candido, rise.
E disse allora il Nume che scuote la terra, ad Apollo:
«Febo, e perché noi due ristiamo? Non bello è tale atto!
Gli altri già sono alle prese. Vergogna per noi, se torniamo
senza azzuffarci, all’Olimpo, di Giove alla bronzea dimora.
Comincia tu, che sei più giovine: a me non conviene,
ché nato sono prima di te, ch’ò più senno. Oh demente,
che smemorato cuore dev’essere il tuo! Non ricordi
quanti malanni ad Ilio d’intorno dovemmo soffrire,
soli tu ed io, quel tempo, che qui, per comando di Giove,
Laomedonte superbo servimmo — ed un anno ivi corse —
e pattuita fu la mercede, e stavamo ai suoi cenni.
D’intorno alla città dei Troiani io costrussi le mura,
belle ed eccelse, ché niuno potesse espugnare la rocca;
e tu, Febo, pei clivi, pei fondi burroni e le selve
dell’Ida, i lenti bovi dai corni lunati pascevi.
Ma quando infine l’Ore segnarono il termine lieto
della mercede, a noi diniego ne fe’ con la forza
Laomedonte feroce, che via ci cacciò con minacce:
ci minacciò che legate ci avrebbe le mani ed i piedi,
all’isole remote che schiavi ci avrebbe mandati:
e pronto era a recidere a entrambi le orecchie col ferro.
E ce ne andammo cosi, lontano, col cruccio, nel cuore
per la mercede promessa, che poi non ci volle sborsare.
Merito forse di questo tu rendi al suo popolo, invece
d’adoperarti con noi, perché muoiano i Teucri malvagi,
tutti riversi a terra, coi figli e le nobili spose?»
Ma gli rispose Apollo che lungi saetta, gli disse:
«Enosigèo, davvero mi avresti a chiamar dissennato
s’io m’azzuffassi con te, per causa degli uomini grami
simili a frondi ch’oggi fioriscon con grande rigoglio
forti del cibo pasciuto, domani li accoglie la morte.
Via, desistiam dalla pugna: combattano pure fra loro».
Disse, ed altrove si volse, perché non voleva alle mani
venir col Dio germano del padre, ne aveva rispetto.
Ma s’adirò con lui la sorella, la Dea cacciatrice,
Artèmide selvaggia, che tal vituperio gli volse:
«Saettatore, dunque tu fuggi, tu senza contrasto
tutto il trionfo, tutta la gloria a Posidone lasci?
Stolto, perché mai l’arco portare, se a questo ti serve?
Fa’ ch’io non t’oda mai più vantar nella casa del padre
come già prima solevi, nel cerchio dei Numi celesti,
ch’eri capace tu di sfidare Posidone a lotta».
Disse. Ed Apollo che lungi saetta, a lei nulla rispose.
Tutta fremente invece di sdegno, la sposa di Giove
queste parole d’obbrobrio rivolse alla Dea cacciatrice:
«Cagna sfrontata, che mai presumi di stare a me contro?
Essere dura saprò, saprò contrastar la tua furia,
sebbene destra sei nell’arco: ti fe’ leonessa
contro le donne, Giove, permise che morte a chi brami
dessi; ma meglio per te cacciare per l’alpi le fiere
ed i selvaggi cervi, che a gara venir coi più forti.
Ma, se tu vuoi, sperimenta la zuffa, ché ben tu conosca
quanto io sono più forte di te, che vuoi meco azzuffarti».
Disse. Ed al polso entrambe le man’ con la manca le strinse,
via le strappò con la dritta dagli omeri l’arco e il turcasso,
sopra le orecchie colpi le inflisse con quelli
, ridendo.
Si dimenava, quella: le frecce giù caddero al suolo;
e lagrimosa sfuggi di sotto, che parve colomba
che lo sparviere fuggendo, s’appiatta nel concavo sasso
d’una spelonca: ché quivi non era suo fato esser presa.
Così la Dea fuggi lagrimosa, e lasciò la faretra.
E l’Argicida che l’anime guida, rivolto a Latona,
disse: «Non io, Latona, con te pugnerò: dura impresa
è, con le spose azzuffarsi di Giove che i nembi raguna.
Vantati pure franca, se vuoi, fra i Beati d’Olimpo,
che superato m’hai di forza nell’aspro cimento».
Disse cosi. Ma l’arco ricurvo Latona raccolse,
e le saette sparse qua e là nella polve del campo:
raccolse le saette dal campo, e seguì la figliuola.
Questa in Olimpo era corsa, di Giove alla bronzea dimora,
e, lagrimando, su le ginocchia del padre s’assise,
tutta tremando sul corpo l’ambrosia veste. E il Cronide
se la raccolse al petto, le chiese con dolce sorriso:
«Chi degli Uràni t’ha ridotta cosi, figlia mia?
E gli rispose la Dea redimita che vaga è di cacce:
«Era percossa m’ha, la tua sposa dall’omero bianco,
babbo, per cui fra i Celesti son sorte le zuffe e le risse».
Queste parole, dunque, scambiavano Artèmide e Giove.
E Febo Apollo entrò nel sacro recinto di Troia,
ché gli sovvenner gli spalti dell’ardua rocca, per tema
che contro il fato i Danai l’avesser quel giorno a espugnare.

E tutti gli altri Numi, tornati in Olimpo, crucciosi
questi, festosi quelli, s’assisero, ognuno vicino
al Padre,
adunatore dei nuvoli negri. — Frattanto
Achille sterminava Troiani e solunghi corsieri.

Priamo dà ordine di aprire le porte di Troia per dar rifugio ai Troiani in fuga da Achille. Agenore non fugge, aspetta che Achille si avvicini, e lo colpisce con la lancia su una gamba, ma senza ferirlo, perché l’armatura lo protegge. Achille si avventa su di lui, ma il dio Apollo protegge Agenore, lo avvolge nella caligine e lo porta in salvo.
Poi Apollo ne prende le sembianze e si fa inseguire da Achile, per distrarlo.
Intanto i Troiani fanno in tempo a ripararsi entro le mura.


Come allorquando un fumo si leva agli abissi del cielo
d’una città che arde, ché l’ira d’un Nume lo spinge:
reca travaglio a tutti, per molti è fatale rovina:
cosi pena e rovina recava il Pelide ai Troiani.
Il vecchio Priamo stava sovressi gli spalti divini;
ed ecco giunger vide l’immane Pelide
; ed i Teucri
dinanzi a lui, sgomenti fuggivano,
e niuno più ardiva
stargli di contro. Il re scese sùbito ai pie’ della torre,
e delle porte ai custodi die’ ordin che stessero ai varchi
:
«Le porte spalancate, le man’ su tenetevi, pronti
sin che alla rocca giunga la turba fuggiasca: ché Achille
l’incalza già da presso: ben temo l’estrema rovina.
Quando poi dentro le mura raccolti, riprendano fiato,
sùbito allor chiudete di nuovo
le solide imposte;
ché quel furente non debba, lo temo, balzar nella rocca».
Disse. E dischiusero quelli le porte, levaron le sbarre;
le spalancate imposte mostraron la luce ai fuggiaschi.
E balzò fuori Apollo, per essere schermo ai Troiani.
Questi, diritti verso la rocca e l’eccelsa muraglia,
dal pian fuggivano, arsi di sete, di polvere sozzi.
E l’incalzava Achille, con l’asta tutto impeto, e fiera
l’ira gli ardeva il cuore,
la brama di farne sterminio.
E qui l’eccelse mura di Troia espugnavan gli Achivi,
se non avesse Apollo sospinto
d’Antènore il figlio,
Agenore divino, gagliardo, animoso, onorato.
Nel cuore il Dio gl’infuse coraggio, e vicino egli stesso
gli stie’, per tener lungi le Parche crudeli di morte:
e a un faggio s’addossò, da fitta caligine cinto.
E quegli, come Achille mirò che sul muro piombava,
stette; e nel seno il cuore gli ondava con fiero tumulto;
e, tutto cruccio, cosí nell’animo grande pensava:
«Misero me, se adesso dinanzi ad Achille possente
fuggo, pel tramite stesso che battono gli altri sgomenti,
mi prenderà, la gola mi taglierà, senza contrasto.
Forse, potrei lasciare che innanzi ad Achille Pelide
fuggano questi, ed io, lontan dalle mura di Troia,
volgere i piedi veloci di Troia sul pian, sin ch’io giunga
sopra le alture dell’Ida, mi appiatti fra i densi macchioni.
A sera poi, lavate le membra nell’acque del fiume,
via deterso il sudore, potrei ritornarmene ad Ilio.
Anima mia, che cosa tu vai fra te stessa dicendo?
Se m’allontano pel piano lontan dalle mura, mi scorge,
ed inseguendomi, ratto m’aggiunge coi piedi veloci,
né sarà modo ch’io possa le Parche evitare e la Morte:
ché troppo egli in valore si leva sugli uomini tutti.
E se dinanzi alle mura mi fermo, ed incontro gli muovo?
Anche il suo corpo si può forare col bronzo affilato;
solo uno spirito egli ha, mortale egli è pure, per quanto
dicono tutti; ma Giove lo vuole ricolmo di gloria».
Disse; ed in sé raccolto, attese il Pelide; ed il petto
suo valoroso empieva di guerra una furia e di lotta.
Come pantera che avanza dai fitti recessi d’un bosco
al cacciatore contro, né il cuore terrore le ingombra,
né sbigottisce, per quanto l’avvolga il latrato dei cani:
ché pur se quegli primo riesce a colpirla, a ferirla,
anche cosi, trafitta da cuspide aguzza, non resta
dalla sua furia, se prima noi colga, o non resti abbattuta:
similemente il figlio d’Antènore, Agènore prode,
darsi non volle alla fuga, ma prima far prova d’Achille.
E tutto quanto dietro nascosto allo scudo rotondo,
librò contro di lui la zagaglia,
con alta minaccia:
«Questa speranza davvero nutrivi nell’animo, Achille,
d’oggi espugnare la bella città dei guerrieri troiani?
Stolto che sei! Molti altri cordogli t’attendono ancora:
però che molti ancora siamo uomini prodi e gagliardi,
che per i nostri figli, le spose dilette e i parenti,
difenderemo Troia. Tu poi, contro al fato di morte
muovi, benché tu sii terribile e audace guerriero».
Disse, e l’acuta zagaglia vibrò dalla mano gagliarda.
E non fallì la mira: lo stinco di sotto al ginocchio
colpiva; e lo schiniere di peltro di fresco temprato,
terribilmente squillò; ma senza ferire il Pelide

il bronzo rimbalzò: ché l’arme del Dio lo schermiva.
Ed a sua volta Achille piombò sopra Agenore prode.
Ma non permise Apollo che spentolo, vanto ne avesse;
e lo rapì, di fitta caligine cintolo tutto,
e lo mandò securo, lontano alla furia di guerra.

Con un inganno, poi, dalle turbe distolse il Pelide,
il Nume: tutte assunse le forme d’Agènore, e innanzi
gli stette; e i pie’ veloci rivolse a inseguirlo il Pelide
.
E l’inseguiva cosi, pei campi feraci di biade.
Dove Scamandro i suoi gorghi volgeva, volgeva la caccia:
lo precorreva Apollo di poco; e con questa sua frode
lo lusingava, ché sempre sperasse di coglierlo al corso.
Ma sbigottiti frattanto giungean gli altri Teucri in frotta,
con ansia gioia, dentro le mura; e fu piena la rocca
dei fuggitivi; né alcuno restar fuor dei valli sostenne,
per ivi attender gli altri, vedere chi fosse sfuggito,
chi nella zuffa spento; ma trepidi ed ansi, per Ilio
si riversavano quanti scampati ne aveva la fuga.

{Iliade, libro XXI – traduzione di Ettore Romagnoli}

Immagine: Henri-Frédéric Schopin, Achille inseguito dal fiume Xanto