Libro XIX

Eventi principali:
Teti consegna l’armatura nuova ad Achille. Achille si riconcilia con Agamennone, che gli offre molti ricchi doni e gli riconsegna Briseide. Briseide vede il corpo di Patroclo e lo piange. Achille è troppo addolorato per mangiare, ma Atena, impietosita, gli dà forza.
Achille veste le armi e sale sul carro.

Achille piange sul corpo di Patroclo; il suo dolore è inconsolabile - Iliade
…Quindi i vegliardi Achivi si strinsero intorno ad Achille,
e lo pregaron che cibo prendesse. Ma quei rifiutava,
sempre gemendo: «Vi prego, se pure qualcun degli amici
vuol compiacermi, a me non parlate di cibo e di vino,
ch’io me ne debba saziare, ché troppo è il dolor che mi cruccia:…

Teti porta ad Achille le armi forgiate da Efesto, e lo sprona a rinconciliarsi con Agamennone e tornare a combattere, assicurandogli che lei veglierà sul corpo di Patroclo e impedirà che imputridisca.

Ecco, dai rivi d’Ocèano, Aurora dai peplo di croco
fuori balzò, che ai Numi recava la luce e ai mortali;
e coi presenti del Nume, d’Achille a le rapide navi
Tètide giunse
; e il figlio trovò, che di Pàtroclo il corpo
stretto teneva, piangendo: gemevano molti compagni
a lui d’intorno. Ad essi vicina si fece la Diva,
e per la mano lo prese, gli volse cosí la parola:
«0 figlio mio, per cruccio che averne si possa, lasciamo
giacer costui, poiché dei Numi la forza l’ha spento;
e tu da me quest’armi fulgenti d’Efesto ricevi,
belle cosi, che alcuno non mai le indossò dei mortali».
E, dette ch’ebbe queste parole, la Diva depose
l’armi dinanzi ad Achille. Mandarono tutte uno squillo;
e furon di terrore colpiti i Mirmidoni; e niuno
guardarle osava, tutti tremavano. Achille soltanto,
come le vide, più fu invaso dall’ira; e tremende
le sue pupille, sotto le ciglia, mandavano lampi.
E s’allegrò, del Dio ricevendo i bellissimi doni;
e poi che sazio fu di guardare quell’opere belle,
alla sua madre si volse, parlò queste alate parole:
«L’armi che il Dio m’ha date, somigliano ad opre di Numi.
Esser cosí doveva: nessuno degli uomini, o madre,
era capace di tanto. Vo’ cingerle adesso alle membra.
Ma troppo temo adesso pel prode figliuol di Menezio,
che nelle piaghe schiuse dal bronzo non entrin le mosche,

non generino vermi, che sconcino il corpo defunto:
ché vita più non ha, ché tutte marciscon le carni».
E a lui cosí rispose la Dea dall’argenteo piede:
«L’animo, figlio mio, non devi per questo crucciarti:
lungi dal corpo io terrò le selvagge tribù delle mosche,
che sogliono far pasto degli uomini uccisi in battaglia:
se qui dovesse pure giacer sin che un anno si compia,
sempre qual’è dovrà restare, e forse anche più bello.
Ma ora, a parlamento tu chiama i guerrieri d’Acaia,
l’ira contro l’Atride signore di genti deponi,
sùbito dopo, a guerra t’appresta;
e valore te vesta».
La Dea, con questi detti l’infuse d’audace prodezza.
Nelle narici poi di Pàtroclo, ambrosia stillava,
nèttare rosso stillava, perché non marcisse la carne.

Achille e Agamennone si riconciliano


E andò lungo la riva del pelago Achille divino,
e con orrende grida riscosse i guerrieri d’Acaia.
E sin quelli che inanzi soleano restar presso i legni,
ed i piloti, e quelli che avevano i remi in custodia,
e quei, che, dispensieri, partire solevano il pane,
anch’essi a parlamento correvano, adesso che Achille
era comparso, che tanto rimasto era lungi alla pugna.
E, zoppicanti, due giungevan scudieri di Marte,
il figlio di Tidèo valoroso, ed Ulisse divino,
ambi poggiati all’asta: ché ancora soffrian delle piaghe.
Giunti che furono qui, sedettero, primi fra tutti.
Giunse Agamènnone, sire di genti, per ultimo: anch’egli
era ferito: l’aveva colpito nel fiero cimento
con la sua lancia di bronzo, Coóne, d’Antènore figlio.
E poi che furon tutti raccolti i figliuoli d’Acaia,
surse fra loro Achille dai piedi veloci a parlare:

«Si, per entrambi, Atride, fu quello il partito migliore,
per me, per te, quel dì, che, crucciati, che ligi a Contesa
che strugge l’alme, a lite venimmo per una fanciulla!
Deh!, su le navi con una saetta colpita l’avesse
Artemide quel di, ch’io la presi e distrussi Lirnesso:
ché tanti e tanti Achèi non avrebbero morsa la terra
sotto i nemici colpi, mentre io lungi stavo nell’ira.
Per Ettore, pei Teucri, vantaggio fu, si; ma gli Achivi
lunga dell’ira nostra memoria serbare dovranno.
Ma quello ch’è trascorso, si oblii, se pur cruccio se n’abbia;
e la necessità, gli spiriti domi nei petti.
Ecco, dall’irà mia desisto
, giacché non conviene
che senza tregua io sia corrucciato. E tu, senza più indugio,
alla battaglia sospingi gli Achei dalle floride chiome,
si ch’io, contro i Troiani movendo, far possa la prova
se mai presso le navi volessero fare il bivacco.
Ma più d’uno, credo io, vorrà rimanere in riposo,
se dalla lancia mia scamperà nella pugna crudele».
Cosí disse. E fùr lieti gli Achei dalle belle gambiere,
che avesse infine l’ira deposta il magnanimo Achille.
Ed Agamènnone, sire di popoli, surse a parlare,
di là dov’ei sedeva, ché in mezzo al convegno non venne.
«Dànai, guerrieri miei valorosi, scudieri di Marte,
conviene, quando un uomo si leva a parlare, ascoltarlo,
non interromperlo; o ch’egli, per quanto sia sperto, s’impaccia.
Dov’è di molta gente frastuono, ascoltare, parlare,
come si può? Per forte che s’abbia la voce, si perde.
Ora, io vo’ col Pelide spiegarmi; ma tutti gli Argivi
modano anch’essi, quello ch’io dico, ciascuno lo intenda.
Già molte volte gli Achei m’han fatto lo stesso discorso,
m’hanno lanciato rampogne; ma io non ho colpa di nulla.
Giove ha la colpa, la Parca, l’Erinni che muove nel buio,
che dentro il cuore mio gittarono cieco furore
nell’assemblea, quel giorno ch’io tolsi ad Achille il suo dono.

Ma io, che far potevo? Ché a tutto pone esito un Nume,
Ate, la figlia maggiore di Giove, che tutti fa ciechi,
la maledetta! I suoi piedi son morbidi; e non su la terra
essa cammina, bensí per le menti degli uomini avanza;
essa danneggia le genti: ché uno irretisce su due;
essa, persino il figlio di Crono accecò, che il più saggio
è fra i Celesti, si dice, fra gli uomini tutti. Ed anch’esso,
pure, ingannato fu, d’una donna ai raggiri fu preda,
d’Era, quel dì che Alcmena dovea dar la luce alla forza
d’Ercole, fra le mura di Tebe ch’à serto di torri.
Egli, con questo vanto parlava fra tutti i Celesti:
— Datemi tutti ascolto, voi Numi, voi Dive d’Olimpo:
ch’io voglio dirvi quello che il cuore mi dice nel petto.
Oggi, alla luce Ilizia datrice di doglie, un mortale
darà, che re sarà dei popoli tutti vicini,
nato da quella stirpe d’umani che vien dal mio sangue —.
Ed Era veneranda, maestra d’inganni, rispose:
— Esito non avrà ciò che dici, sarai menzognero.
Giurami invece, o sire d’Olimpo, con giuro solenne,
che re diventerà dei popoli tutti vicini
colui ch’oggi nascendo, fra i piedi cadrà d’una donna
nata da quella stirpe d’umani che vien dal tuo sangue —.
Cosí diceva. E Giove comprender non seppe l’inganno,
ch’era acciecato; e ad Era prestò giuramento solenne.
Ed Era, con un balzo lasciate le vette d’Olimpo,
rapidamente ad Argo d’Acaia pervenne: sapeva
ch’era di Stenèlo, figlio di Pèrseo, quivi la sposa,
che un figlio in grembo, già nel settimo mese, recava.
Era lo trasse a luce, sebbene il suo mese non fosse,
e freno pose al parto d’Alcmena, e trattenne le Ilizie.
Ed il messaggio ella stessa recando al Cronide, gli disse:
— Una notizia, o Giove, ti reco, e tu scrivila in cuore:
è nato chi sarà signor degli Argivi: Euristèo,
di Stènelo, figliuolo di Pèrseo, nipote: è tuo sangue:
ben degno egli è però, che regni su tutti gli Argivi. —
Acuto cruccio Giove colpiva nel fondo del cuore.
Sùbito Ate afferrò per la testa dai riccioli molli,
e, tutto pien di sdegno, prestò giuramento solenne
che su l’Olimpo mai più, mai più fra le stelle del cielo
Ate sarebbe tornata, che accieca di tutti le menti.
E, pur giurando, rotò la mano, e dal cielo stellato
via la scagliò: ben presto degli uomini ai campi fu giunta.
E a lei sempre imprecava, qualora il suo figlio vedesse
sotto le indegne fatiche patire, mercè d’Euristèo.
Ed io del pari, quando di Priamo il figlio possente
strage facea d’Argivi, vicino alle navi d’Acaia,
non mi potevo d’Ate scordar, che m’aveva acciecato.

Ora, poiché m’accecai, poiché Giove di senno mi tolse,
voglio con te far la pace,
vo’ darti infinito riscatto.
Su via, muovi alla zuffa, sospingi alla zuffa anche gli altri;
e tutti i doni a te recare farò, quanti Ulisse
nella tua tenda ieri venuto, a promettere t’ebbe.

E, se tu vuoi, qui aspetta, per quanto la pugna tu brami;
e gli scudieri miei, dalla tenda prendendo i miei doni,
li recheranno, ché veda se quello ti dò che tu brami».
E Achille pie’veloce rispose con queste parole:
«D’Atrèo celebre figlio, Agamènnone sire di genti,
i doni, se tu vuoi, di’ pur che li portino; oppure
tienili presso di te. Per ora, si pensi alla guerra,
prima che sia: ché qui non bisogna restare a trastullo,
perdere tempo: è grave l’impresa che compier si deve.
E chi di voi vedrà fra i primi combattere Achille
con la sua lancia di bronzo, struggendo le teucre falangi,
porre non deve in oblio la lotta con chi gli si affronti».

Ulisse consiglia ad Achille di non mandare gli Achei a combattere digiuni, ma di indire un banchetto. Poi invita Agamennone a preparare i doni promessi ad Achille. Achille non pensa al banchetto, ma alla guerra, perché arde di desiderio di vendetta. Ulisse insiste, perché sostentarsi è necessario alla guerra.


E questo Ulisse a lui, l’eroe sagacissimo, disse:
«Achille, ai Numi pari, per quanto tu sii valoroso,
contro Ilio non mandare digiuni i guerrieri d’Acaia,
contro i Troiani a pugnare; perché breve tempo la zuffa
non durerà, poiché si saranno incontrate le schiere,
e un Nume in queste e in quelle infonda furore di guerra.
Ordine prima dà che presso alle navi gli Achei
cibino pane e vino, ché quivi è la forza e il valore;
perché, per tutto un di’, sino all’ora che il sole s’immerge,
un uom che sia digiuno non può tener fronte al nemico:
perché, se pure il cuore lo spinge alla zuffa, pesanti
si fanno a mano a mano le membra, la fame e la sete
lo coglie, le ginocchia gli mancano, mentre cammina.
Ma l’uomo invece che ben sazio di cibo e di vino,
da mane a sera può combattere contro i nemici,
è pien d’ardore il cuore nel seno, né stanche le membra
sono, finché non sia cessata del tutto la pugna.
Su via, le genti adesso congeda, ed il pranzo comanda
che si prepari. E i doni, l’Atride signore di genti
in mezzo al campo faccia recare, ché tutti gli Achivi
veggan con gli occhi loro, ché lieto il tuo cuore ne resti.

E poi, sorgendo in pie’fra gli Achivi, ti presti il suo giuro
ch’egli nel letto di lei non è mai salito o giaciuto
com’è dritto, o signore, degli uomini tutti e le donne;

e allora, anche il tuo cuore placarsi dovrà nel tuo seno.
Nella sua tenda poi t’accolga con lauto banchetto,
ché nulla manchi a te di quello che pur t’è dovuto.
Atride, e d’ora innanzi, più equo tu esser dovrai
con gli altri; poi ch’è giusto che un re paghi anch’esso l’ammenda
ad un altr’uomo, quando l’ingiuria per primo gli reca»
.
E a lui cosí rispose l’Atride, signore di genti:
«Le tue parole udire m’allieta, figliuol di Laerte,
ché tutto è giusto quello che tu ragionasti, esponesti.
Ed io vo’ questo giuro prestare, il cuor mio me lo impone,
né io dinanzi al Nume spergiuro sarò. Ma qui, certo,
sebbene tanta sia la sua brama di guerra, il Pelide,
ed anche tutti voi sostate, sinché dalla tenda
giunti non siano i doni, si prestino i giuri solenni.
Ed a te stesso io questo, figliuol di Laerte, propongo:
scegli dei giovani quelli che son fra gli Achivi i migliori,
che dalla nave mia qui rechino i doni che ieri
noi promettemmo ad Achille, qui rechino pure le donne.

E presto a me Taltibio prepari un cinghiale, nel vasto
campo d’Acaia, ch’io voglio che a Giove s’immoli ed al Sole».
E Achille pie’ veloce rispose con queste parole:
«D’Atrèo celebre figlio, Agamènnone sire di genti,
in altro tempo, meglio potreste di ciò darvi cura,
allor che della zuffa ci sia qualche tregua, e nel seno
a me non arda più questo fiero furore. Ma ora,
giacciono straziati gli amici che caddero ai colpi
d’Ettore, quando a lui concedeva la gloria il Cronide;
e voi volete al pasto mandare le genti? Oh!, comando
bene io darei che a zuffa movessero i figli d’Acaia
digiuni ed affamati, che solo al tramonto il banchetto
s’apparecchiasse, quando lavato si fosse lo scorno.
Per la mia gola, prima d’allora passar non potrebbe
né cibo, né bevanda, sinché giace spento il compagno
nella mia tenda
, giace coi piedi rivolti alla porta,
tutto sconciato dal bronzo, gli piangono intorno i compagni.
Quindi, a nulla di ciò rivolgere io posso il pensiero,
ma solo a stragi, a sangue, a gemiti d’uomini fieri
».
E a lui cosí l’eroe sagacissimo Ulisse, rispose:
«Pelide Achille, o il più possente fra tutti gli Achivi,
più valoroso tu sei di me, sei più forte, e non poco
nell’armi: io nel consiglio, però, di non poco t’avanzo,
perché prima di te son nato, ed ho visto più cose.
Alle parole mie sia docile dunque il tuo cuore.
Gli uomini, molto presto van sazi di quella battaglia
in cui la spada a terra cadere fa copia di paglia,
ed è la messe invece scarsissima, quando il Cronide
ch’è dispensier negli scontri di guerra, gli eventi bilancia.
Possibile non è che gli Achei faccian lutto col ventre,
perché troppi son quelli che cadono giorno per giorno

l’uno su l’altro: quando s’avrebbe respiro alla pena?
Quando un dei nostri cade, conviene con animo forte
dargli sepolcro, e pianto versare per solo quel giorno;

e quanti poi scampare possiamo alla guerra odiosa,
alle bevande e al cibo pensare dobbiam, sì che, saldi
sempre di più, senza tregua si possa affrontare il nemico,

cinti d’indòmito bronzo le membra, né alcuno più indugi,
novello incitamento che a pugna lo sproni attendendo.
L’incitamento questo sarà: — Sciagurato colui
che resterà presso i legni d’Acaia! Scagliamoci stretti,
e contro i Teucri di nuovo sia desta la furia nemica —».

Ulisse e i compagni preparano un sacrificio. Agamennone giura che non ha mai toccato Briseide. Vengono portati i doni presso la tenda di Achille. Qui Briseide vede Patroclo morto, e lo piange.


Disse. E compagni prese di Nèstore illustre i figliuoli,
con Merióne, Toante, Megète, figliuol di Filèo,
e Melanippo, e il prò’ di Creonte figliuol Licomede.
Mossero tutti alla tenda del sire Agamènnone; e quivi
con le parole insieme, compiuti seguirono i fatti.
Fuor dalla tenda, sette recarono tripodi, quelli
che avea promessi, e venti lucenti lebeti, e corsieri
dodici, e sette donne maestre d’ogni opera bella:
ottava era la figlia di Brise, dal volto vezzoso.
Dieci talenti d’oro pesò quindi Ulisse; ed a capo
si pose del corteo, seguir gli altri giovani Achivi.
in mezzo all’assemblea deposero i doni; ed in piedi
surse l’Atride; e Taltibio, che aveva la voce d’un Nume,
un apro fra le braccia stringendo, lo porse al sovrano.
E allora, strinse il figlio d’Atrèo, fuori trasse la daga,
che della spada presso la grande guaina pendeva,
le setole dell’apro recise, ed a Giove levate
le mani, lo pregò. Ciascuno al suo posto, gli Argivi
stàvano muti, com’era dovere, ascoltando il sovrano.
Ed ei pregò, le luci volgendo alla volta celeste:
«Giove per primo sappia, ch’è il sommo e il migliore fra i Numi,
sappian la Terra, il Sole, l’Erinni, che sotto la terra
traggon vendetta di quanti fra gli uomini mancano ai giuri,
che io non posi mai la man su la figlia di Brise,
né per volerla d’amore, né mai per veruna ragione,
ma nelle tende mie nessuno mai l’ebbe a toccare.
Se in nulla fui spergiuro, m’infliggano i Numi tormenti
molti, quanti essi serbare ne soglion, se alcuno spergiura».
Disse, e lo stomaco svelse dell’apro col ferro spietato.
E lo scagliò Taltibio, giratolo a cerchio, nel gorgo
grande del mare bianco di spume. Ed in piedi sorgendo,
queste parole Achille parlò fra gli Achivi guerrieri:
«0 Giove padre, grandi sciagure tu infliggi ai mortali:
se no, mai non m’avrebbe l’Atride tale ira eccitata
e cosí lunga in seno, né contro mia voglia ed a forza
ei la fanciulla m’avrebbe rapita. Ma volle il Cronide,
che sopra molti Achei piombasse il destino di morte.
Ma ora a pranzo andate, ché ancor poi divampi la zuffa»
.
Cosí diceva; e senza più indugio, disciolse il convegno.
Si sparpagliarono quelli, tornando ciascuno alla nave:
e allora, gli animosi Mirmidoni presero i doni,
e li recarono verso la nave d’Achille divino,
li collocar nella tenda
, disposero ai seggi le donne,
e gli scudieri ammirandi recar nella mandra i corsieri.
E allor, Brisèide, bella non meno dell’aurea Afrodite,
come Patroclo vide trafitto dal ferro affilato,
abbandonata su lui, levò lagni acuti, ed il petto
si lacerò con l’unghie,
le guance ed il morbido collo,
e, lagrimando, disse, la donna che Diva sembrava:
«Pàtroclo, ch’eri a me tapina carissimo amico,
io vivo ti lasciai, quel di che partii dalla tenda,
e ti ritrovo morto, signore di popoli, adesso
ch’io vi ritorno! Sempre per me segue un male ad un male.
L’uomo a cui data m’avevano il padre e la nobile madre,
dinanzi alla città lo vidi trafitto di spada:
i tre fratelli a me diletti, che tutti una madre
diede alla luce, tutti pervennero al giorno fatale.
Ma tu neppur volevi, quel giorno che Achille m’uccise
lo sposo, ed espugnò la città di Minète divina,
ch’io lagrimassi: m’andavi dicendo che Achille divino
seco m’avrebbe a Ftia condotta, legittima sposa,
sui legni, e nella patria con me celebrate le nozze.
Per questo io senza tregua ti piango, ché tanto eri mite».
Cosí dicea pregando, gemevano pur l’altre donne.
Pàtroclo n’era il pretesto; ma ognuna sfogava il suo duolo.

Mentre gli altri banchettano, Achille non può toccare cibo per il dolore. Giove, impietosito, manda Atena a infondergli forza.

Quindi i vegliardi Achivi si strinsero intorno ad Achille,
e lo pregaron che cibo prendesse
. Ma quei rifiutava,
sempre gemendo: «Vi prego, se pure qualcun degli amici
vuol compiacermi, a me non parlate di cibo e di vino,
ch’io me ne debba saziare, ché troppo è il dolor che mi cruccia:
resistere digiuno saprò sin che il sole tramonti».
Cosí dicendo, diede commiato il Pelide ai sovrani.
Ma seco i due figliuoli d’Atrèo rimanevano, e Ulisse,
Nèstore, Idomenèo vegliardo, e l’equestre Fenice.
E confortar l’afflitto tentavano a prova; ma quello
nessun conforto avere poteva, se pria non poteva
entro le fauci sanguigne gittarsi alla guerra funesta.

E, ripensando l’amico, traeva sospiri, e diceva:
«Oh, quante volte, infelice, diletto fra tutti gli amici,
tu nella tenda a me preparavi soave la mensa,
svelto
, con ogni cura, qualora gli Achivi guerrieri
contro i Troiani, in fretta recavan la furia di guerra.
Ed ora, giaci lì trafitto, né io voglio cibo,
né vino,
che pur tanto ce n’è nella tenda, per brama
di te, ché nessun male peggior poteva toccarmi,
neppur se avessi udita la nuova che morto è mio padre,

che adesso vive in Ftia, che lagrime versa, per brama
di questo figlio, ch’ora lontano, fra estranee genti,
per Elena odiosa, coi Teucri sta combattendo,
oppur che morto è il figlio mio caro che a Sciro mi vive,
se pur vivo ancora è Neottòlemo simile ai Numi.
Prima, nel petto mio speranza nutriva il mio cuore
ch’io solo in Troia qui caduto sarei, lungi d’Argo
nutrice di cavalli, che in Ftia tu dovessi tornare,
che su la nave negra veloce dovessi il mio figlio
teco da Sciro addurre, per tutti mostrargli i miei beni,
tutti i miei servi, e il mio palazzo dall’alto fastigio:
perché morto è Pelèo di già, me lo dice il mio cuore,
oppur di vita poco gli resta, ché troppo l’opprime
la tormentosa vecchiaia, l’attendere sempre novelle
di me, che luttuose saranno, e saprà ch’io son morto».
Cosí disse piangendo, piangevano tutti i signori,
alla sua casa ognuno pensando, ai suoi beni lasciati.
N’ebbe il figliuolo di Crono, pietà,
come pianger li vide,
e tosto volse tali veloci parole ad Atena:
«Figlia, tu dunque affatto l’eroe che pure ami, abbandoni?
Achille, dunque, più non ti viene per nulla al pensiero?
Egli piangendo sta dinanzi alle navi bicorni,
piange il diletto compagno caduto. Son gli altri guerrieri
andati al pasto: ei solo rimane affamato e digiuno:
muòviti dunque, a lui fatti presso, ed infondigli in petto
nèttare e dolce ambrosia, perché non lo abbatta la fame»
.
Atena, già bramosa, con queste parole sospinse.
Pari ad un falco di penna veloce, di stridula voce,
giù dal cielo balzò nell’ètere. Intanto, gli Achivi
s’armarono via via pel campo. E la Diva, ad Achille
nèttare dentro il seno stillava, e dolcissima ambrosia,
ché non dovesse molesta la fame fiaccargli i ginocchi.
Poscia, la Dea tornò del padre alla solida casa,
e si dispersero quelli lontan dalle rapide navi.

Achille veste le armi e sale sul carro; uno dei cavalli, Baio, gli annuncia la morte vicina, per volere dei Numi.


Come allorquando i fiocchi di gelida neve, dal cielo
svolano fitti, all’urto di Bora che nasce dall’ètra,
fitti cosí gli elmetti brillavano allora e corruschi,
gli scudi umbelicati che uscian dalla cerchia dei legni,
gli usberghi a salde squame, le lancie di frassino: al cielo
saliva il luccichio, tutto intorno rideva la terra
per il barbaglio del bronzo, frastuono sorgeva dai piedi
dei guerrieri. E in mezzo, s’armava il divino Pelide.
Uno stridore i suoi denti mandavan, brillavano gli occhi,
come sfavilla vampa di fuoco, nel seno gli ardeva
insopportabile cruccio. Spirando furor contro i Teucri,
l’armi indossava del Nume, che Efesto gli aveva costrutte.
Prima, riparo alle gambe, si pose i lucenti schinieri,
che alle caviglie intorno stringevano fibbie d’argento;
poscia, d’intorno al petto girò la corazza; la spada
gittò sopra le spalle, di bronzo, coi chiovi d’argento;
e poi, lo scudo prese, che molto grande era e massiccio,
ed un fulgore lontano raggiava, e pareva di luna.
Come talvolta appare, lontano sul mare, ai nocchieri,
d’un fuoco ardente il raggio, che brucia alla cima d’un monte,
entro solinga stalla; ma quelli, sul mare pescoso,
loro malgrado, il turbo lontano dai cari trascina:
tale per l’ètra un fulgore mandava lo scudo d’Achille
istoriato bello. Levò poi la salda celata,
e se la cinse al capo: fulgea che pareva una stella,
l’elmo crinito, tutto d’intorno ondeggiavan le chiome
d’oro, che aveva Efèsto confitte d’intorno al cimiero.
Poi, fece prova di sé nell’armi, il divino Pelide,
se tutte eran adatte, se ben vi moveva le membra:
e queste erano ferme, reggevano a volo il signore
.
E dall’astiera allora prese anche la lancia del padre,
ch’era pesante e massiccia, né altri potea degli Achivi
vibrarla: il figlio solo di Pèleo vibrare poteva
quel frassino del Pelio cui diede a suo padre Chirone,
scelta di cima al Pelio, perché fosse morte d’eroi.
Àlcimo ed Automedonte badavano intanto ai cavalli.
Postili sotto il giogo, legarono ad essi le barde,
posero i freni alle bocche, le redini tesero indietro
verso la solida conca: nel pugno la lucida sferza
Automedonte strinse, ben chiusa, e balzò sopra il carro.
E Achille dietro a lui balzò,
che, recinto dell’armi,
fulgeva come il sole che valica il sommo del cielo.
E con un orrido grido si volse ai cavalli del padre:
«Baio, Liardo, e voi, di Pie’ ratto famosi figliuoli,
a trarre meglio in salvo l’auriga pensate, quando egli
fra i Danai tornerà, poi che sazi saremo di guerra:
non lo lasciate, al pari di Pàtroclo, morto sul campo».
E Baio a lui rispose, corsiere veloce, dal giogo,
sùbito giù chinando la testa; e di sotto il collare
tutta la chioma s’effuse dal giogo, sfiorando la terra:
ch’ Era gli die’favella, la Diva dall’omero bianco:
«Certo, anche adesso te salveremo, divino Pelide;
ma t’è vicino il giorno che devi morire; e la colpa
noi non abbiamo, ma un Dio ben grande, e la Parca possente.
Non per la nostra lentezza, non già perché fossimo pigri
tolsero l’armi dal corpo di Pàtroclo i Teucri guerrieri:
un Nume fu, fra tutti possente, il figliuol di Latona,
quei che l’uccise in campo, che ad Ettore diede la gloria
.
Correre noi potremo coi soffi di Zefiro a pari,
che più leggero è di tutti, si dice; ma pure è destino
che tu cada trafitto, per opra d’un uomo e d’un Nume
».
Come ebbe detto ciò, l’Erinni gli tolse la voce.
E a lui rispose Achille veloce, col cruccio nel cuore:
0 Baio, perché m’annunci la morte? Non tu lo dovresti.
Bene lo so da me, ch’ è destino ch’io qui cada spento,
lungi dal padre mio, dalla madre; ma pur, dalla guerra
non resterò, se prima non n’abbia satolli i Troiani».
Disse; e fra i primi spinse, levando un grande urlo, i corsieri.

{Iliade, libro XIX – traduzione di Ettore Romagnoli}

Immagine: Gavin Hamilton, Achille piange sul corpo di Patroclo