Libro XIII

Eventi principali:
Poseidone, approfittando di un attimo di distrazione di Giove, scende a sostenere gli Achei. La lotta si prolunga: Ettore avanza con i suoi, Aiace guida la resistenza degli Achei. Un’aquila appare in cielo, e gli Achei la interpretano come un buon auspicio.

Poseidone emerge dal mare sul suo carro
…Ma il Dio che scuote e stringe la terra, Posídone sire,
fuori balzò dagli abissi del mare, e fe’ cuore agli Achivi…

Poseidone, approfittando di un attimo di distrazione di Giove, scende ad aiutare gli Achei, prendendo le sembianze di Calcante. Infonde forza agli Aiaci, e spinge gli Achei a continuare a difendere le loro navi dall’attacco dei Troiani

Spinti i Troiani cosí con Ettore, sopra le navi,
Giove qui li lasciò, fra pianti e continuo travaglio;
ed egli altrove gli occhi fulgenti rivolse, a guardare
lungi, la terra dei Traci che allevan corsieri, dei Misi
prodi a combatter da presso, dei belli Ippomòlgi, che latte
cibano equino, degli Abî, fra gli uomini tutti i piú giusti;
né verso Troia piú volgeva il suo fulgido sguardo,
perché nessuno, certo, pensava, dei Numi d’Olimpo,
osato avrebbe dare soccorso ai Troiani e agli Argivi.
Però, cieco il Signore che scuote la terra, non era:
stava a vedetta, mirava stupito lo scontro di guerra,
alto, sovressa la cima piú alta di Samo di Tracia
fitta di selve; e di qui distinta vedea tutta l’Ida,
vedeva la città di Priamo, ed i legni d’Acaia.
Quivi era accorso, balzando dal mare; e pietà degli Achivi
sentia
, cosí fiaccati, ardea contro Giove di sdegno.
Giú, senza indugio, balzò dai dirupi del monte, volgendo
rapidi i passi: i monti tremavano eccelsi e le selve
sotto i piedi immortali del Nume che scuote la terra.
Tre volte il passo spinse, col quarto raggiunse la mèta,
Ege, dov’è per lui costrutta, nel fondo dei gorghi,
l’inclita casa d’oro, che folgora tutta, immortale.
Quivi al carro aggiogò due cavalli dal piede di bronzo,
rapidi al corso, che d’oro avevan le chiome: egli stesso
d’oro le membra tutte recinse, in man prese una sferza
bene costrutta, d’oro, salí sopra il cocchio, e i corsieri
spinse sui flutti.
I mostri del mare balzâr d’ogni parte,
come apparí, dagli abissi, conobbero il loro Signore:
e per la gioia il mare si schiuse: con rapida furia
quelli volavano; e l’asse di bronzo neppur fu bagnato.
Una spelonca larga, del mare nei bàratri fondi,
s’apre, fra Tènedo ed Imbro tutta irta di rocce. I cavalli
fermò quivi il Signore che scuote la terra, dal carro
li sciolse, e innanzi ad essi, perché si cibassero, pose
l’ambrosia biada, ai piedi li strinse con auree pastoie
che non si frangono o spezzano, acciò che il ritorno del Nume
quivi attendessero; ed egli si volse all’esercito achèo.
Stretti i Troiani, intanto, che fuoco parevan, procella,
con implacata furia seguiano di Priamo il figlio,
con grida alte e frastuono: speravan le navi d’Acaia
prendere, e, presso quelle, dar morte a quanti eran piú prodi.
Ma il Dio che scuote e stringe la terra, Posídone sire,

fuori balzò dagli abissi del mare, e fe’ cuore agli Achivi.
Ei di Calcante assunse l’aspetto e la voce possente;
e pria disse agli Aiaci, che eran da sé tutta furia:
«Voi due potete, Aiaci, salvare gli Achivi, se il cuore
non alla fuga orrenda, bensí volgerete all’offesa.
Nell’altre parti no, dei Troiani le mani gagliarde
io non pavento, che a frotte passarono sopra il gran muro:
ch’ivi frenarli sapranno gli Achei dalle belle gambiere;
ma qui, pavento assai che ci debba toccare un malanno,
dove s’avanza
questo furente, che pare una fiamma,
Ettore, che si vanta figliuolo di Giove possente.
Cosí voi due potesse convincere alcuno dei Numi
a far fronte voi stessi da prodi, a incitar l’altra gente!
Spingerlo allor potreste lontan dalle rapide navi,
per quanto infurî, pure se Giove egli stesso lo incita».
E, cosí detto, il Nume che cinge, che scuote la terra,
col suo bastone entrambi percosse, e di furia gagliarda
li empie’, leggeri i piedi ne rese, le mani, le membra.

Ed egli a volo surse, che sembrò sparviere veloce
che da un’altissima rupe scoscesa libratosi a volo,
giú, per cacciare un altro pennuto, si lancia nel piano.
Tal si spiccò da loro il Nume che scuote la terra.
E primo Aiace, figlio veloce d’Ilèo, lo conobbe,
e volse al Telamonio cosí la veloce parola:
«Aiace, uno dei Numi d’Olimpo, l’aspetto del vate
assunse, e ci ordinò di combattere presso le navi.
Non è costui Calcante, l’interprete saggio d’auspíci:
le mosse ho conosciute bene io delle gambe e dei piedi,
quando è da noi partito: ch’è facil conoscere i Numi.
E vedi, ora, anche a me, nel fondo del petto, il mio cuore
s’agita piú di prima, per muovere a guerra ed a zuffa,
fremere i piedi sotto mi sento, e le valide mani».
Il Telamonio Aiace rispose con queste parole:
«Ed anche a me cosí, le mani che stringon la lancia
fremono, e l’ira mia si desta, ed entrambi i miei piedi
sento balzarmi sotto, m’invade desío d’affrontare
Ettore, ch’or senza tregua c’investe; e sia pure da solo».
Queste parole cosí scambiarono l’uno con l’altro,
lieti per quell’ardore pugnace, ispirato dal Nume.
E dietro ad essi, il Nume che scuote la terra, eccitava
gli Achei,
che stavan presso le navi, a riprendere fiato.
Eran le membra loro fiaccate da orrenda stanchezza,
e li rodeva un cruccio nel cuore, vedendo i Troiani
ch’eran passati a frotte di là dalla grande muraglia:
lagrime ad essi dai cigli sgorgavano; e piú del malanno
non aspettavano scampo; ma il Nume che scuote la terra,
agevolmente eccitò, movendo fra lor, le falangi.
A Teucro prima il Nume rivolse ed a Lèito il comando,
a Penelèo l’eroe, e a Dípiro insieme, a Toante,
a Meríone, ad Antiloco, esperti nel grido di guerra;
e queste, ad eccitarli, rivolse parole veloci:
«Vergogna, Achei, novellini, ragazzi! Se voi combatteste,
le nostre navi, certo ne sono, salvare potreste;
ma se pensate invece la guerra schivare, e i suoi lutti,
ora è spuntato il dí che i Troiani vi debban fiaccare.
Ahi!, che prodigio strano questo è, ch’ora io debbo vedere
con questi occhi, che mai creduto possibile avrei,
che sulle nostre navi sarebbero giunti i Troiani,
simili un tempo a cerve fugaci, che preda nel bosco
divengon di pantere, di lupi e sciacalli, ché a caso
vanno fuggendo, ché imbelli sono esse, né sanno la zuffa.
Cosí prima i Troiani resister, sia pure un istante,
dei guerrïeri achèi non potevano ai colpi e alla furia;
ed or presso le navi combatton, lontano da Troia,
perché dappoco è il duce, perché la sua gente è infingarda
che seco lui contrasta, né vuole pugnare a difesa
delle veloci navi, ma cade su queste trafitta.
Ebbene, anche se proprio la colpa di tutti i malanni
sopra Agamènnone cade, sul figlio possente d’Atrèo,
perché fece al veloce di Pèleo figlio un oltraggio,
non è concesso a noi per ciò trascurare la guerra.

Su’, procuriamo un rimedio! Sanabile è il cuore dei prodi.
Bello non è che voi trascuriate la fiera battaglia,
quando i piú forti siete del campo. Non io con un uomo
m’adirerei, che la pugna schivasse, se fosse un vigliacco;
ma pieno è contro voi davvero di sdegno il mio cuore.
O gente frolla, certo farete maggiore il malanno
con l’indolenza vostra!
Su’ presto, pudore e vergogna
riscuota ognuno in cuore: ché fiera è la zuffa impegnata:
Ettore presso le navi combatte, guerriero gagliardo,
prode nell’urlo di guerra, spezzata ha la porta e la sbarra».
Con tali ordini, dunque, Posìdone scosse gli Achivi.

Gli Achei si stringono a falange e resistono all’assalto di Ettore, ma lui non si dà per vinto e ritorna all’attacco, perché confida nel favore di Giove.


E si disposero in due falangi vicine ad Aiace,
salde, che, neppur Marte, né Atena che i popoli scuote,
se fosser giunti, opporre potevano biasimo; e l’urto
d’Ettore e dei Troiani, qui scelti attendeano i piú forti
,
l’asta assiepando all’asta, lo scudo allo scudo proteso,
sicché scudo era a scudo puntello, elmo a elmo, uomo ad uomo;
e si toccavan degli elmi criniti le lucide creste,
ad ogni mossa: tanto fitti erano, l’uno su l’altro,
squassate eran le lance sporgenti dai pugni gagliardi,
e d’avanzare brama li ardea, d’appiccare la pugna.
E contro loro i Troiani cozzarono; ed Ettore primo
correa, simile a masso che rotola giú da una rupe,
cui dalla somma vetta, con impeto d’acque infinito,
spinse un torrente, e i sostegni scalzò dell’immane macigno:
vola a gran balzi in alto, rimbombano sotto le selve,
e innanzi corre, e intoppo non trova, sinché giunge al piano,
e qui, per quanto grande sia pur la sua furia, s’arresta.
Ettore, similemente, sin qui, fatto aveva minaccia
che giunto al mare, ai legni, sarebbe, e alle navi d’Acaia,
strage menando; ma poi che urtò nelle strette falangi,
stette, serrato ad esse di contro.
E di contro, gli Achivi,
lui con le spade colpendo,
col duplice taglio dell’asta,
lungi lo spinsero; ed egli dove’, pur fremendo, ritrarsi.
E a sé chiamò, levando altissimo grido, i Troiani:
«Troiani, Lici, e voi, valenti a pugnare dappresso,
Dàrdani, state saldi: piú a lungo gli Achei non potranno
reggere all’urto mio,
per quanto si stringano a torre:
sotto la lancia mia dovranno piegar, se alla zuffa
me sospingeva d’Era lo sposo, che il primo è dei Numi».

Questo dicendo, eccitò la furia, il valore d’ognuno.
Deífobo, figliuolo di Priamo, con piglio superbo
movea tra i primi, e innanzi reggeva librato lo scudo,
lieve sui pie’, che i passi movea dello scudo al riparo.
Lui Merióne tolse di mira con l’asta lucente,
e lo colpi nello scudo librato, di pelle di toro;
né lo fallí; ma neppure pote’ traversarlo: la punta
della zagaglia lunga si ruppe assai prima. E lontano
dal corpo suo lo scudo Deífobo tenne, temendo
di Merióne guerriero la lancia; e lontano l’eroe
si ritirò, fra le schiere dei suoi: ché gran cruccio lo ardeva
della vittoria perduta, dell’asta che franta gli s’era;
ed alle tende e alle navi d’Acaia si volse, per tôrre
una sua lunga lancia, che avea nella tenda lasciata.
E combattevano gli altri, né mai tregua aveva il frastuono.
E Teucro Telamonio per primo ivi uccise un campione,
Imbrio, di Mentore figlio, signore di molti cavalli.
Pria che giungessero i figli d’Acaia, abitava il Pedèo,
ed una figlia spuria di Priamo, Medesicasta
era sua moglie; e quando poi giunser dei Danai le navi,
tornò di nuovo ad Ilio, distinto fra tutti i Troiani,
ed abitava con Priamo, che caro lo avea come un figlio.
Lui con la lunga lancia colpi Teucro sotto l’orecchio,
poi trasse il ferro; e quello, giù cadde che un frassino parve,
che sulla vetta d’un monte, visibile a tutti da lungi,
reclina al suol, recise dal bronzo, le tenere frondi:
cosí piombò, su lui rimbombarono l’armi di bronzo.
E Teucro si lanciò, che l’armi bramava predargli:
Ettore contro, mentre movea, gli vibrò la sua lancia;
egli però, che vide, la punta di bronzo, per poco
giunse a schivare; e trafisse la cuspide Anfínomo, figlio
d’Attorïóne Cteàto, che a pugna moveva, nel seno:
cadde con un rimbombo, su lui rintronarono l’armi.
Ettore súbito allora si lanciò, per trarre l’elmetto
bene adattato alle tempie, dal capo ad Anfínomo prode;
ma mentre ei si lanciava, su lui l’asta lucida Aiace
vibrò; ma non raggiunse le carni;
ché tutte nascoste
erano d’orrido bronzo: l’umbone colpí dello scudo,
l’urtò con la sua furia gagliarda; e da entrambi i caduti
Ettore indietro cede’, li trassero lungi gli Achivi.
Stichïo, dunque, e il divino Menèsteo, principi entrambi,
d’Atenïesi, portarono Anfímaco in mezzo agli Achivi.
Imbrio portato fu dagli Aiaci bramosi di pugne.
Simili a due leoni, che quando han rapito una capra
ai denti aspri dei cani, la portano via fra le macchie,
tra le mascelle stretta la tengon, sospesa dal suolo:
sospeso alto cosí tenendolo entrambi gli Aiaci,
l’armi predavano; e il capo spiccato dal tenero collo,
il figlio d’Oïlèo, d’Anfímaco a far le vendette,
lo roteò, lo scagliò fra le turbe, che parve una palla.
D’Ettore innanzi ai pie’ ruzzolò nella polvere. E allora,
tutto di fiero sdegno s’empie’ di Posídone il cuore,
pel suo nipote, ch’era caduto nell’orrida mischia;
e i passi volse verso le tende e le navi d’Acaia,
cuore facendo ai Dànai, nel lutto spingendo i Troiani.

Poseidone incita Idomeneo, che con il suo scudiero Merione va a lottare.


Idomenèo s’imbatte’ per primo nel Nume. Lasciato
da poco aveva un suo compagno, che giunto ferito
gli era da un colpo di punta nel pòplite, or or dalla zuffa.
L’avean gli amici addotto, l’aveva affidato l’eroe
ai medici: ora, verso la tenda moveva, ché brama
lo ardeva ancor di pugne. E il Nume che scuote la terra,
gli disse, e avea la voce del figlio d’Andrèmo, Toante,
l’eroe che nell’eccelsa Calídone, e in tutta Pleurona
sugli Ètoli regnava, godeva d’onori divini:
«Idomenèo, che i Cretesi consigli, ove son le minacce
che contro Troia, un tempo, lanciavano i figli d’Acaia?»
Idomenèo, dei Cretesi signore, cosí gli rispose:
«Sopra nessuno, adesso, Toante, ricade la colpa,
per quanto io so: ché bene sappiamo combattere tutti,
né alcuno è da codardo timore frenato, né lungi
sta per pigrizia dalla funesta battaglia; ma questo
deve piacere certo che avvenga al possente Croníde,
che senza gloria, lungi soccombano d’Argo gli Achivi.
Ma via, giacché, Toante, tu ognor con intrepida fronte
bene eccitare sai, se svogliati li vedi, anche gli altri,
non ti stancare adesso, ma scuoti uno ad uno i compagni».
E a lui cosí rispose il Nume che scuote la terra:
«Idomenèo, non possa tornare di Troia alla patria,
ma qui possa restare, ludibrio dei cani, quell’uomo
che voglia in questo giorno, ritroso mostrarsi alla zuffa.
Su, dunque, impugna l’armi, vien qui, ché vogliamo all’assalto
muovere insieme,
se rechi vantaggio questo essere in due:
vale la forza unita di gente, sia pure dappoco;
e noi, pure coi forti sappiamo affrontare la zuffa».
Disse; e di nuovo il Dio si avviò fra il travaglio di morte.
E Idomenèo, poiché fu giunto alla solida tenda,
cinse alle membra l’armi sue belle, impugnò due zagaglie,
e mosse, che pareva la folgore, quando il Croníde,
strettala in pugno, la squassa dai picchi fulgenti d’Olimpo,
segno del Nume ai mortali: ben lunge ne brillano i raggi.
Cosí fulgeva il bronzo sul petto all’eroe che correva.
E Merióne incontro gli giunse, il suo prode scudiero,
presso alla tenda ancora: veniva a cercare la lancia.
Idomenèo gagliardo, cosí la parola gli volse:
«O Merïone, figlio veloce di Mòlo, diletto
fra tutti, a che qui vieni, lasciando la guerra e la zuffa?
Ferito sei tu forse, ti ambascia la punta d’un dardo,
oppur qualche messaggio sei giunto a recarmi? Ma io
restar qui nella tenda non voglio, anzi correre a lotta».
E a lui queste parole Meríone saggio rivolse.
«Idomenèo, dei Cretesi dall’arme di bronzo signore,
vengo, se mai nella tenda ti fosse rimasta una lancia:
io prender la vorrei: ché quella che or ora impugnavo,
quando lo scudo colpii del superbo Deífobo, ruppi».
Idomenèo, dei Cretesi signore, cosí gli rispose:
«Lancie, se tu ne vuoi, non una ne trovi, ma venti,
dentro la tenda mia, poggiate ai lucenti sostegni:
lancie troiane sono, predate agli uccisi: ché io
non soglio no, mi pare, combatter lontano ai nemici:
lancie però qui sono, qui scudi coperti di borchie,
elmi e corazze sono che spandono vivo fulgore».
E a lui queste parole rispose Merióne saggio:
«Ho molte spoglie anch’io di Teucri, vicino alla nave,
dentro la tenda mia; ma troppo mi sono lontane:
ché neppure io, ti dico, dimentico son del valore,
ma nella zuffa, dove si provano gli uomini, saldo
io sto fra i primi, quando si leva la furia di guerra.
Potrò sfuggire, quando combatto, a qualcun degli Achivi;
ma tu con gli occhi tuoi, mi credo, hai dovuto vedermi».
E Idomenèo, dei Cretesi signore, cosí gli rispose:
«Il tuo valore, qual sia, lo so bene: perché lo rammenti?
Se ci adunassimo, quanti piú prodi siam qui, presso i legni,
in un agguato, dove piú brilla il valor della gente —
ché qui si scorge bene qual uomo sia prode, qual vile,
ch’or d’un colore, or d’un altro il viso del vile si tinge,
né in seno il cuor gli regge cosí ch’egli fermo rimanga,
ma si rannicchia, ed ora su l’uno dei piedi si poggia,
ora sull’altro, e il cuore gli batte nel seno a gran colpi,
ché si figura già la morte, e gli stridono i denti;
ma non si muta il colore del prode, né troppo ei si turba,
poi che il suo posto occupò nell’agguato dei forti, ed augurio
fa di mischiarsi prima che sia nella lotta funesta — :
neppure qui potrebbe veruno la forza e il coraggio
tuo biasimare: ché pure se fossi trafitto o colpito,
non sulla nuca il colpo cadrebbe, non già su la schiena,
anzi sul petto tuo dovrebbe incontrarti, nel ventre.
mentre ti scagli dove s’accostano primi i più forti.
Ma non restiamo, come se fossimo sciocchi, a far ciance,
ché contro noi non arda taluno di sdegno superbo:
entra, su via, nella tenda, e scegli una lancia ben salda ».
Si disse. E pari a Marte feroce, balzò Merióne
entro la tenda, e prese un’asta di bronzo, e su l’orme
d’Idomenèo si mise: ché molto anelava alla pugna.
Come si lancia Marte, che gli uomini stermina, a zuffa,
e lui segue Terrore, l’intrepido e forte suo figlio,
che nei guerrieri infonde, per quanto sian prodi, sgomento:
muovono a campo entrambi da Tracia, a pugnar tra gli Efíri
oppure in mezzo ai Flegi magnanimi: ascolto ad entrambi
dare non sanno; e a questi concedono o a quelli la gloria:
tali Merióne ed Idomenèo, condottieri di genti,
tutti recinti di bronzo fulgente, movevano a lotta.
E Merióne, primo così favellava al compagno:
« Da qual parte ti vuoi, Deucalíde, cacciar ne la zuffa?
Forse alla destra di tutto l’esercito, oppure nel mezzo,
o non piuttosto a manca? ché qui, più che altrove, mi credo,
sopra i chiomati Achei svantaggiosa s’aggrava la guerra».
Idomenèo, signore di Creta, cosí gli rispose:
« Altri guerrieri prodi difendon le navi nel mezzo:
gli Aiaci prodi, e Teucro, che supera tutti gli Achivi
nel saettare, ed è pure valente a pugnar fronte a fronte.
Per quanto Ettore sia gagliardo fra tutti, per quanto
impetuoso, il figlio di Priamo, sapranno frenarlo:
arduo per lui sarà, per quanto assetato di zuffe,
vincer la loro furia guerriera e le indomite mani,
e dar fuoco alle navi. A men che il Croníde egli stesso
gittar sopra le navi non voglia una fiaccola accesa;
ma di Telamone il figlio, da niuno degli uomini, vinto
esser potrà, che sia mortale, che cibi frumento,
ch’essere franto possa dal bronzo o da immani macigni.
Lottando a corpo a corpo, neppur cederebbe ad Achille
sterminatore di genti: non c’è chi nel cozzo l’uguagli.
Dunque, a sinistra noi due restiamo: ben presto vedremo
se trionfare qualcuno faremo, o se avremo trionfo».
Detto cosi, Merióne, che Marte feroce sembrava,
mosse, finché pervenne nel punto del campo ch’ei disse.
Veduto Idomenèo, che pareva una furia di fiamma,
e lo scudiere seco, nell’armi lucenti, i nemici,
l’uno eccitando l’altro, su lui s’avventarono tutti;
e da per tutto la pugna s’accese d’intorno alle navi.
Come allorché sotto vènti fischianti si scaglian procelle,
nei dí che son le vie coperte di polvere fitta,
e quelli alzan gran nebbia di polvere, insieme spirando:
surse cosí confusa la zuffa degli uomini; e brama
avean di sterminare l’un l’altro, col bronzo affilato;
e per le lunghe lancie protese a ferire, la pugna
sterminatrice appariva tutta irta; e abbagliava gli sguardi
lo scintillare del bronzo dagli alti cimieri fulgenti,
dalle corazze di fresco brunite, dai lucidi scudi
che s’avanzavano a masse: chi avesse gioito a tal vista,
chi non si fosse turbato, intrepido stato sarebbe.
Ma con opposto disegno, di Crono i due figli possenti
ivano intanto apprestando corrucci ed ambasce agli eroi.

D’Ettore e dei Troiani volea la vittoria il Cronide,
per dar gloria ad Achille dai piedi veloci: né spenti
tutti però volea sotto i muri di Troia gli Achivi:
Teti onorare soltanto voleva, e l’intrepido figlio:
Posidone eccitava gli Achei, ché fra lor s’era spinto,
nascostamente emerso dal mare spumoso: gran cruccio
gli era, vederli fiaccati cosí dai Troiani, grande ira
l’ardeva contro Giove. Entrambi d’ un sangue e d’ un padre
eran; ma prima Giove nato era, e sapeva più cose;
per questo, a viso aperto non dava soccorso agli Achivi;
ma, forma d’uomo assunta, di furto eccitava le schiere.
Della feroce contesa, cosi, della guerra implacata
l’attorta fune tesa tenevan sugli uni e sugli altri,
che non si frange né scioglie, che a tanti fiaccò le ginocchia.

Idomeneo tenta di corrompere Otrione e uccide Asio. Antiloco uccide l’auriga di Asio. Deifobo colpisce Ipsenore e se ne vanta. Antiloco protegge il corpo, e Idomeneo replica uccidendo Alcato e vantandosi; e sfida poi Deifobo.


Quivi, sebbene già mezzo canuto, eccitando gli Achivi,
Idomenèo, sui Troiani piombando, li volse alla fuga
:
ch’egli Otrïóne uccise, venuto da Càbeso ad Ilio:
venuto era, all’annunzio di guerra, da poco; e chiedeva
la più bella fra tutte le figlie di Priamo, Cassandra;
né prometteva doni, ma compiere grande una gesta:
scacciare a forza lungi da Troia i figliuoli d’Acaia.
Il vecchio Priamo diede consenso, e promise la figlia;
ed ei, nella promessa fidente del re, combatteva.
Idomenèo lo tolse di mira con l’asta fulgente,
e lo colpi, che avanzava superbo. L’usbergo di rame
non gli bastò, ch’ei portava: lo colse nel mezzo del ventre:
piombò, diede un rimbombo. Vantandosi, l’altro proruppe:
« Otrionèo, fra quanti son gli uomini tutti io ti esalto,
se veramente tutte saprai mantener le promesse
che a Priamo re facesti, quand’ei ti promise la figlia.
Farti potremmo anche noi, mantenere anche noi la promessa
di dare a te la figlia più bella del figlio d’Atrèo,

dartela sposa, qui condurtela d’Argo, se d’Ilio
la popolosa città coi Dànai espugnare vorrai.

Vieni con me, ché sopra le navi facciamo l’intesa
per queste nozze: noi non siam paraninfi da poco!».
Detto cosi, per un piede lo trasse traverso alla pugna
Idomenèo. Su lui giunse Asio a vendetta:
pedone
dinanzi ai suoi cavalli sbuffanti, che dietro reggeva
sempre l’auriga scudiero. Nel cuore agognava colpire
Idomenèo; ma questi prevenne il suo colpo, e la strozza
gli perforò sotto il mento, passando fuor fuori la punta.
E cadde, come cade un pioppo, una quercia, o un eccelso
pino, che i legnaioli recidono in vetta d’ un monte
con le affilate scuri, per farne legname da navi:
cosi giacque disteso dinanzi ai cavalli ed al carro,
cadde, rugliando cosi, brancicando la polvere e il sangue.
E si turbò la mente, che prima avea chiara, all’auriga,
né gli bastò l’ardire di volgere indietro i cavalli,
per isfuggire ai nemici. Antiloco vago di zuffe
a mezzo lo colpi con la lancia: l’ usbergo di rame
non gli bastò, ch’ei portava: lo colse nel mezzo del ventre;
ed ei dal carro bello piombò con un rantolo al suolo;
e Antiloco, figliuolo di Nèstore, intrepido cuore,
condusse fra i guerrieri d’Acaia i cavalli di Troia.
E per la morte d’Asio crucciato Deifobo allora,
si fece presso ad Idomenèo, lo colpi con la lancia.
Quegli schivò, ché vibrare la vide, la lancia di bronzo,
e si nascose dietro Io scudo rotondo librato,
ch’egli portava, di pelle di bovi e di lucido bronzo,
girato al tornio, e dentro fermato con doppio bracciale:
tutto si rannicchiò dietro a questo; e la lancia di bronzo
volò, sfiorò lo scudo, che die’ secco strepito all’urto.
Ma non invano l’asta parti dalla mano possente:
ché Ipsènore
, pastore di genti, figliuolo d’ Ippàso,
colpí sotto il diaframma, nel fegato, e a terra lo stese.
E ne menò, con grande urlo, Deifobo vanto feroce:
«Vedi, che privo d’onore non va neppure Asio: io vi dico
che, pur se scende all’Ade, custode implacato alle porte,
ei va con lieto cuore, ché tale un compagno gli diedi».
Cosí disse; e quel vanto rempieva di cruccio gli Argivi.
E fu, su tutti gli altri, sdegnato d’Antiloco il cuore.
Pure, benché turbato, non pose il compagno in oblio;
ma gli girava attorno, tendeva lo scudo a schermirlo.
E due cari compagni si fecero presso al caduto:
Mecísto, figlio d’Ècio, Alàstore stirpe di Numi;
e lo recâr, che profondo gemeva, alle rapide navi.
Né punto Idomenèo placava la furia; e irrompeva
sempre, bramoso d’avvolger di tènebre alcun dei Troiani,

o di cadere egli stesso, schermendo agli Achei la rovina.
Àlcato innanzi gli venne, diletto figliuol d’Esuèto
eroe, stirpe di Numi. D’Anchise era genero: sposa
egli Ippodàmia aveva, la figlia maggiore. Fra tutte,
sinch’ella visse in casa, diletta era al padre e alla madre,
ché tutte quante aveva compagne d’età, superava
per senno, per bellezza, destrezza nell’opere; e sposa
l’ebbe, per questo, l’uomo che primo fra tutti era in Ilio.
D’Idomenèo l’abbatté Posídone allor sotto l’asta,
che gl’irretí le membra, di fàscino gli occhi gli avvolse,
sí, che né volgersi a fuga potea, né schermirsi dai colpi;

bensí, come colonna, come albero ch’alto frondeggia,
fermo egli stava. E a mezzo del petto gl’immerse la lancia
Idomenèo guerriero, la bronzea tunica franse
che sopra il seno a lui, dinanzi, schermiva la morte.
Strepito secco allor diede, squarciata dintorno alla punta,
diede cadendo un rimbombo. La lancia era infitta nel cuore,
guizzar facevi il cuore coi palpiti il calcio dell’asta:
qui Marte crudo, infine, lasciò che vanisse la furia.
E Idomenèo levò, con grande urlo, un vanto feroce:
«Dëífobo, dobbiamo pensar che sia giusto compenso
uccider tre per uno? ché questo era pure il tuo vanto.
Vieni dinanzi a me fronte a fronte, anche tu, sciagurato,
si che tu sappia quale sono io, che di Giove discendo,
che prima generò Minosse a regnare su Creta:
questi ebbe un figlio scevro di biasimo, Deucalïone,
Deucalïone me generò, che regnassi sul fitto
popol di Creta. E qui m’addusser le rapide navi
per la sciagura tua, di tuo padre, di tutti i Troiani».

Deifobo decide di chiamare Enea che lo aiuti ad affrontare Idomeneo; a loro sostegno dell’uno e dell’altro arrivano i compagni. Deifobo sbaglia e al posto di Idomeneo colpisce Ascalafo, figlio di Marte. Deifobo, ferito ad un braccio, si ritira.


Cosí disse. E fra due rimase Dëífobo incerto:
o s’ei, trattosi indietro, cercasse qualcun dei Troiani
per suo compagno, oppure tentasse la prova da solo.
Questo, pensando, il meglio gli parve: cercare d’Enea.
Ed ecco, lo trovò che stava fra l’ ultime schiere:
ch’ei sempre contro Priamo divino era pieno di cruccio,
ché lo stimava poco,
sebbene era prode fra i prodi.
Presso gli stette, e queste veloci parole gli disse:
«Enea, tu che i Troiani conosci, ora si, che vendetta
del tuo cognato devi tu fare,
se pure n’hai lutto!
Seguimi, d’Àlcato, su, facciamo vendetta, se pure
nella tua casa ei t’ha nutrito, quando eri ancor tanto.
Idomenèo, valente maestro di lancia, or l’ha spento».
Disse; e con queste parole furore gl’infuse nel seno.
E verso Idomenèo s’avventò, desïoso di pugna.

E Idomenèo non già sgomentò, come fosse un dappoco:
anzi, restò come fiero gagliardo cinghiale sui monti,
quando una turba aspetta che avanza con alto frastuono,
in solitario luogo: si vede tutta irta la schiena,
tutti di fuoco gli occhi lampeggiano, e arròta le zanne,
ché da sé lungi agogna respingere gli uomini e i cani.
Idomenèo, maestro di lancia, cosí stava saldo,
ed attendeva l’assalto d’ Enea, che accorreva a riscossa.
Ma die’ voce ai compagni, Dëípiro, Ascàlafo e Afàre,
E Merióne ed Antíloco,
entrambi maestri di guerra.
Li vide, e li eccitò con queste veloci parole:
« Correte, amici, a me recate soccorsoI Son solo,
e assai pavento Enea,
che avanza con passo veloce,
che su me piomba, ed è maestro ad uccidere in guerra,
e il fior di giovinezza ha inoltre, la massima forza:
poiché, se avessi gli anni ch’egli ha, per aggiunta al mio cuore,
avremmo od egli od io ben presto la grande vittoria ».
Cosí diceva. E a lui, con un animo solo, i compagni
corsero tutti vicini, poggiati a le spalle gli scudi.
Dall’altra parte, Enea die’ pure una voce ai compagni,
ch’egli Dëífobo scorse, con Paride e Agènore divo
ch’erano duci, al pari di lui, dei Troiani; e a lor dietro
tutte le genti, come, seguendo il montone, le greggi
vanno al pascolo a bere: s’allegra il pastore a vederle.
Similemente il cuore nel seno d’Enea s’allegrava,
quando a sé dietro vide la turba cosí delle genti.
E a corpo a corpo quelli pugnavano ad Àlcato attorno
con le lor lunghe lancie
: rombava terribile il bronzo
sovra i lor petti, mentre cosí si colpivan l’un l’altro.
Due guerrieri che prodi fra i prodi quivi erano. Enea
e Idomenèo di Creta,
entrambi in valor pari a Marte,
l’ uno dell’altro nel seno bramavano immergere il bronzo.
Enea contro il nemico per primo lanciò la zagaglia;
ma quei chinò, ché innanzi spingeva lo sguardo, il suo colpo;
ed oscillando, la terra percosse la lancia d’ Enea,
ché vano il colpo usci, lanciato dal pugno gagliardo.
E Idomenèo colpi nel mezzo del ventre Enomào:
franse l’usbergo nel cavo, s’immerse nei visceri il ferro.
Quegli piombò, brancicò, nella polvere, il suol con le palme.
Idomenèo la lunga sua lancia strappò dal caduto,
ma non potè’, però, spogliarlo dell’armi sue belle,
dagli omeri rapirle, perché lo incalzavano i dardi,
né agili più avea le giunture dei piedi, a lanciarsi
dietro la sua zagaglia, né a schermo dei colpi nemici:
a corpo a corpo, bene sapeva schivare la morte;
ma se fuggire dovesse, non più gli bastavano i piedi.
Ora, mentre ei passo passo cedeva, Dëífobo l’asta
lucida contro lui scagliò:
ché avea l’odio nel cuore;
ma lo sbagliò, colpi con la lancia d’Euríalo il figlio,
Ascàlafo; la lancia s’infisse nell’omero saldo:
egli piombò, brancicò, nella polvere, il suol con le palme.
E non sapeva Marte dall’urlo terribile, ancora,
ch’era caduto il caro figliuolo nell’aspro cimento;
ma sulla vetta somma d’Olimpo, fra nuvole d’oro,
sedea, qui dal volere di Giove costretto, ove anch’essi
erano gli altri Numi, costretti lontan dalla guerra.
A corpo a corpo, intanto, quei prodi, ad Ascàlafo intorno
lottavano. Ghermí Dëífobo l’elmo al caduto;
ma Merióne, pari nell’ ímpeto a Marte, balzando,
al braccio lo colpí con la lancia. Piombò dalla mano
l’alta celata a terra, mandando un rimbombo; e di nuovo
die’ Merióne un balzo, che parve rapace sparviere,
e gli strappò dal sommo del braccio la lancia massiccia,
e fra la turba, di nuovo, tornò dei compagni. E Polìte
trasse il fratello suo Deìfobo fuor dalla zuffa,

sotto la vita un braccio passandogli, sin che fu giunto
ai pronti suoi cavalli, che lungi dal cozzo di guerra
stavano con l’auriga, col carro dai varî colori.
Questi lo addussero afflitto, che cupo gemeva, alla rocca;
e giù sgorgava il sangue dal braccio ferito di fresco.

Continuano le zuffe tra i due gruppi di Troiani e Achei


E combattevano gli altri, né mai tregua avevano gli urli.
Enea sopra Afarèo balzò, di Calètore figlio,
che vide contro sé, nella gola gl’immerse la lancia:
dall’una parte cadde reclina la testa, e lo scudo
cadde, con l’elmo; e la morte s’effuse, e la vita gli strusse.
Antìloco spiò Toòne, mentr’ei si volgeva,
e si lanciò, lo ferì, tutta quanta recise la vena
che per la schiena in alto, via via, corre sino alla nuca.
Ei tutta la recise. Piombò ne la polvere quello,
cadde supino, entrambe le mani tendendo ai compagni.
E Antìloco balzò, per tòrgli dagli omeri l’armi,
guardando tutto in giro: ché standogli attorno i Troiani,
chi qua, chi là, lo scudo fulgente colpìano; ma sotto
non riuscivan del bronzo le tenere membra a ferire;
però che il Dio che scuote la terra, di Nèstore al figlio
stava dappresso, e i colpi schermiva,
sebbene eran fitti.
Pur, dai nemici franco non era egli, no: s’aggirava
fra loro; e la sua lancia non stava ozïosa: vibrava
sempre, rotava; ed egli volgea nella mente i suoi piani,
chi saettasse da lungi, con chi s’azzuffasse da presso.
Ma non sfuggì, mentre egli tirava cosí tra la folla,
d’Asio al figliuolo. Adamante: ché presso a lui fattosi, a mezzo
lo scudo gli colpí. Ma vana la cuspide rese,
gl’invidiò quella vita Posídone azzurro nel crine:
mezza confitta restò nel palvese d’Antíloco l’asta,
come un palo mezzo arso: al suolo piombò l’altra mezza.
Ed egli ripiegò fra i compagni, a schivare la morte.
Ma dietro lui Merióne
movendo, mentr’egli cedeva,
tra l’umbilico ed il pube gl’immerse la lancia, ove Marte
piú dolorose rende le piaghe ai dogliosi mortali.
Quivi la punta gl’immerse: guizzava seguendo la lancia,
quello; e pareva un bue che, su per i monti, i bifolchi
contro sua voglia, a forza trascinano, avvinto di funi.
Si contorceva Adamante, colpito cosí; ma per poco:
sinché, fatto a lui presso, l’eroe Merióne, la lancia
fuor dalle carni gli trasse: gli corse allor buio sugli occhi.
Ed Èleno da presso colpí sulla tempia Dipíro,
con una spada grande di Troia, e l’elmetto gli franse.
Cadde, sbalzato a terra, l’elmetto; e fra i piedi agli Achivi
che combattevano, corse rotondo; e qualcun lo raccolse;
e sopra gli occhi a quello profonda si stese una notte.

Menelao uccide Pisandro


E Menelao, l’Atríde guerriero, fu preso dal cruccio,
e minaccioso mosse contro Èleno, il principe eroe,
squassando l’asta acuta: tese Èleno il braccio dell’arco;
ed ambi a un punto stesso, si fecero innanzi a colpire,
l’uno con l’asta, l’altro dal nervo scagliando una freccia.
Il Priamide colpí Menelao con la freccia nel petto,
nel cavo dell’usbergo; ma indietro balzò la saetta.

Come in un’aia larga, dal piatto del gran ventilabro,
le negre fave e i ceci lontano rimbalzano, spinti
dalla fischiante brezza, dal colpo del ventilatore:
cosí dalla corazza del prode guerrier Menelao
volò, con gran rimbalzo, lontana l’amara saetta.
Ed egli, il prode figlio d’Atrèo, Menelao battagliero,
colpì la man che l’arco lucente stringeva; e nell’arco
si conficcò, trafiggendo la mano, la punta di bronzo.
L’altro, a schivar la morte, tra i suoi si fuggì, penzoloni
la man tenendo; e l’asta traea nella mano confitta.
E dalla mano, l’asta di frassino Agenore svèlta,
con una striscia di lana ritorta fasciò la ferita,
con una fionda che a lui soleva recar lo scudiero.
E contro Menelao glorioso si fece Pisandro;
ma lo guidava la Parca maligna alla soglia di morte,
ché nella pugna fosse fiaccato da te, Menelao.
Quando, l’uno su l’altro scagliandosi, furono presso,
sbagliò l’Atríde il colpo, ché l’asta si torse da un lato.
Pisandro, su lo scudo colpì Menelao glorïoso;
ma non potè fuor fuori passare la lancia; e battendo
sopra l’ampio palvese, si franse il puntale dell’asta.
Pure, quei s’allegrò, sperando di già la vittoria;
ma, fuor tratta la spada trapunta d’argento, l’Atríde
balzò sopra Pisandro. Pisandro, di sotto lo scudo
strinse una scure bella, di rame, in un manico infitta
lungo, di liscio ulivo: l’un l’altro colpirono a un tempo.
Questi colpì la cresta dell’elmo crinito, su alto,
proprio sotto il cimiero: l’Atríde, sul viso il nemico
alla radice del naso colpì:
scricchiolarono l’ossa,
gli occhi dinanzi ai piedi gli caddero al suol sanguinando,
e giù piombò reclino. Calcandogli un piede sul petto,
l’armi l’Atride gli tolse, parlò con parole di vanto:
«Lasciar dovrete almeno le navi dei Dànai, Troiani
oltracotanti,
che mai satolli non siete di guerre,
né d’altre colpe immuni pur siete, né d’altre vergogne:
quelle con cui m’avete macchiato, tristissimi cani,
senza temere l’ira tremenda di Giove ospitale,
che un dì la vostra eccelsa città deve abbattere certo:
voi che la sposa mia legittima, e tanti miei beni,
empî, poi ch’ella bene v’accolse, m’avete rapiti;
ed ora, sopra i legni veloci, volete per giunta
gittare il fuoco infesto, per fare sterminio d’Achivi!
Pur, vi dovrete un giorno, per quanto rissosi, frenare.

Dicono, o Giove padre, che tu tutti gli uomini e i Numi
vinci di senno; eppure, da te tutto questo proviene:
di quanta grazia ancora sei prodigo a questi Troiani
oltracotanti
, pieni mai sempre di voglie malvage,
che sazi mai non sono di stragi, di guerre crudeli.
Sazie le genti potrai d’ogni cosa veder: dell’amore,
del sonno, delle dolci canzoni, del ballo elegante,
cose che pili della guerra si bramano, a farcene sazi;
ma sazi mai non sono di guerre, i Troiani superbi».
E, cosí detto, l’armi strappò dalle membra cruente,
ed ai compagni le die’ Menelao
senza macchia: egli stesso
quindi alla pugna tornò, fra i suoi, nelle file primiere.
Contro qui gli balzò del sire Pilèmeno il figlio,
Arpalïóne, che il padre seguí per combattere ad Ilio,
né più fece alla patria ritorno. Costui da vicino
con la sua lancia, a mezzo lo scudo colpí dell’Atríde;
ma non potè fuor fuori la punta di bronzo passarlo;
ond’ei si ritirò fra i compagni, a schivare la morte,
guardando tutti in giro, ché alcun non l’avesse a ferire.
Ma in quella gli scagliò Meríone una lancia di bronzo,
e nella clune destra lo colse: passò la saetta
fuor fuori, sotto l’osso del pube, forò la vescica.
A terra qui piombò, tra le mani dei cari compagni,
fuori spirando l’alma; e a terra giaceva disteso
come un lombrico; e il sangue scorreva, bagnava la terra.
Presero allora i prodi guerrieri Paflàgoni il corpo,
lo posero sul carro, lo addussero, pieni di doglia,
ad Ilio sacra: il padre moveva con loro e piangeva,
ma prezzo alcun non v’era da rendergli il morto figliuolo.
E per la morte sua, grande ira arse a Paride il cuore,
ch’egli era ospite suo fra la gente paflàgona. E pieno
per lui di cruccio, un dardo scagliò dalla punta di bronzo.
Era nel campo un certo Euchènore, figlio del vate
Pòlide: ricco egli era, valente, e abitava in Corinto.
Era venuto ad Ilio sapendo il suo fato funesto,
ché glie l’aveva spesso predetto il valente suo padre:
o per doglioso morbo soccombere sotto il suo tetto,
o presso ai legni Achèi, per man dei Troiani fiaccato:
egli l’amaro spregio insieme evitò degli Achivi,
e l’odïoso morbo, ché i crucci non volle patirne.
Alla mascella, sotto l’orecchio fu còlto; e lo spirto
presto volò dalle membra, lo avvolse la tènebra orrenda.

Ettore, che combatte nella zona centrale, non sa che i suoi compagni a sinistra sono in difficoltà


Cosí pugnavan questi, sembravano fuoco che avvampi;
ma nulla Ettore, a Giove diletto, sapeva, ma nulla
udito avea, che a manca del campo, cosí sterminati
erano i suoi, che presto poteano soccombere vinti,

tanto l’Iddio che cinge la terra, che scuote la terra
spingea gli Argivi, e a loro soccorso pugnava egli stesso;
ma stando, ove dapprima varcato ebbe il muro e la porta,
frangea le fitte schiere dei Dànai
, la siepe di scudi.
dov’eran, tratte in secco, lunghesse le spume del mare,
presso le navi d’Aiace, le navi di Protesilào;
e il muro sopra, qui più basso che altrove; e la mischia
più furïosa qui avvampava di fanti e cavalli.
Quivi i Beoti, quivi gli Ionî dai càmici lunghi,
i Locri, quei di Ftia, gli Epèi fulgidissimi; e a stento
Ettore lungi tenevan dai legni
; e tentavano invano
da sé scacciarne l’urto: parea quel divino una fiamma.
C’erano Atenïesi, quanti eran migliori: lor duce
era Menestio, figlio di Pètio: l’avevan seguito
Fida, con Stichio, ed il prode Biante. Guidavan gli Epèi
Dracio, Anfióne, Megéte, Filide. Alle genti di Ftia
erano duci Podarce, maestro di guerra, e Medone.
Era Medone figlio bastardo al divino Oilèo,
era fratello d’Aiace: lontan dalla terra materna
egli abitava in Filàce: ché ucciso Eriòpide aveva,
ch’era fratello della consorte d’Oilèo, sua matrigna.
Or questi, armato in guerra, guidando i magnanimi Ftii,
a schermo delle navi, pugnavano insiem coi Beoti.
E Aiace, il pie’ veloce figliuolo d’Oilèo, d’un sol passo
non si staccava più dal figliuol di Telàmone
invitto;
ma, come nella dura maggese due fulvidi bovi
traggono il solido aratro, concordi nell’animo; e ad essi
sgorga, d’intorno al ceppo dei corni, in gran copia il sudore:
l’uno dall’altro il giogo lucente soltanto divide,
mentre pel solco vanno, via via, sino al fine del campo:
così stavan piantati quei due, l’uno a fianco dell’altro.
Qui di Telàmone il figlio seguivano molti compagni,
molti e valenti, che a lui reggevano il grande palvese,
quando sudore e stanchezza fiaccavano a lui le ginocchia;
ma non seguivano i Locri il prode figliuol d’Oilèo,
ché non reggeva ad essi il cuore a pugnare dappresso,
ché non avevano elmi di bronzo chiomati di crini,
neppure aveano lancie di frassino o scudi rotondi,
bensì con archi soli, con frombole attorte di lana,
eran venuti a Troia: da lungi pugnavano; e spesso
coi loro tiri fitti rompevan le schiere troiane.

Polidamante consiglia ad Ettore di fare una riunione. Ettore acconsente, ma prima va ad aiutare i suoi compagni in difficoltà. Qui incontra il fratello Paride, che lo aiuta. Aiace lo sfida, e un’aquila appare in cielo come buon auspicio agli Achei. Inizia un nuovo scontro.

Cosí dunque gli Aiaci, coperti dell’armi lucenti,
lottavan coi Troiani, con Ettore armato di bronzo;
quelli, nascosti dietro, lanciavano frecce
; e i Troiani,
messi a scompiglio dai dardi, poneano il valore in oblio.
E con gran lutto qui, lontan dalle navi e le tende
già già fuggiano ad Ilio battuta dal vento i Troiani,
quando Polidamante si fe’ presso ad Ettore, e disse:
«Ettore, a te non riesce seguire i consigli degli altri.
Perché ti diede un Nume che in guerra su tutti emergessi,
perciò, pur nei consigli sapere ne vuoi più degli altri.
Eppur, tutte le doti pigliare per te non potrai:
ad altri diede il Nume che in guerra su tutti emergesse,
a un altro il ballo diede, la cétera a un altro ed il canto:
il buon consiglio Giove depose ad un altro nel seno,
e gran vantaggio da lui ritraggono gli uomini tutti;
ché n’han salvezza molti, ché primo egli stesso ne gode.
Ora io ti dico questo, che a me sembra adesso pel meglio:
poiché di là dal muro son giunti gli arditi Troiani,
stanno in disparte alcuni, nell’armi, e combattono gli altri,
pochi di fronte a molti, dispersi vicino alle navi.
Or tu recedi un po’, qui chiama a raccolta i più prodi:
bene d’ognuno allora potremo ascoltar le proposte,
se sulle navi fitte di banchi si debba piombare,

se pure un Dio ci voglia conceder vittoria, o se illusi
lungi si debba oramai receder dai legni: ch’io temo
che non ci saldin gli Achei del debito ieri contratto:
ché presso ai legni ancora c’è l’uomo mai sazio di guerra,
che non potrà più a lungo tenersi, dico io, dalla pugna»
.
Polidamante cosí parlava, né ad Ettore spiacque.
Balzò súbito a terra, armato com’era, dal carro,
e a lui rivolto, queste veloci parole gli disse:
«Polidamante, tu trattieni qui tutti i più prodi;
ed io vado laggiù, dove arde la zuffa,
e di nuovo
farò ritorno qui, come abbia impartiti i comandi».
Mosse, ciò detto; e parve montagna coperta di neve,
alto gridando; e volò fra Troiani e alleati. E veloci
tutti correvano quelli, com’ebbero udita la voce
d’ Ettore, a Polidamante, di Panto al magnanimo figlio.
E nelle prime file movea quegli intanto, e cercava
se mai trovar potesse Deífobo, ed Èleno
sire,
Asio, d’Irtaco figlio, e d’Asio il figliuolo Adamante.
Ma niuno d’essi immune trovò da travaglio o da morte:
presso l’ ultime navi d’Acaia giacevano questi,
che avean perduta, sotto le man degli Argivi, la vita,
ed altri erano dentro le mura, colpiti o trafitti.
Ma súbito, a mancina del campo cruento, Alessandro,
d’Elena chioma bella lo sposo divino, rinvenne,
mentre eccitava i compagni, con detti animosi, alla zuffa.
Presso gli stette, e queste gli disse parole d’oltraggio:
«Paride tristo, bello soltanto a veder, donnaiolo,
seduttore, ove sono Dëífobo ed Èleno sire,
Asio, d’ Irtaco figlio, e d’Asio il figliuolo, Adamante?
Otrïonèo, dov’è? Davvero, ch’or Troia superba
crollò da cima a fondo: sicura è per te la rovina».
Ed Alessandro, l’uguale dei Numi, cosí gli rispose:
«Ettore, proprio tu, vuoi dar colpa a chi scevro è da colpa?
Schivato forse avrò la guerra altre volte, non questa;
perché del tutto imbelle non m’ha generato mia madre.
Ora che presso le navi tu a guerra eccitasti i compagni,
noi da quel punto qui coi Dànai ci stiamo azzuffando
senza mai tregua. Sono caduti i compagni che dici:
due solamente d’essi, Dëífobo, ed Èleno sire,
andati sono lungi dal campo, trafitti di lancia
ad una mano entrambi, né spenti li volle il Cronide.
Ora, comanda come ti dettano l’animo e il cuore,
ché noi volonterosi verremo con te;
né l’ardore
ci mancherà, credo io, per quanto ci bastan le forze:
ch’oltre le forze, nessuno, per quanto lo voglia, combatte ».
L’alma piegò del fratello, cosí favellando, l’eroe.
E mossero, ove più ferveva la pugna, d’intorno
a Cebrïóne, all’ immune da biasimo Polidamante,
a Polifète, l’uguale dei Superi, a Falce, ad Ortèo,
a Palmi, Ascanio e Mori, che, d’Ippotióne figliuoli,
erano dall’Ascania ferace a dar pèrmuta giunti,
giusto il dí prima. E Giove, qui allora li spinse alla zuffa.
Ivano questi; e procella parevan di rabidi venti
che muove, sotto i tuoni del figlio di Giove, nel piano,
e con orrendo frastuono si mescola al mare; e nel mare
che rumoreggia sempre, ribollono innumeri flutti,
curvi, con creste di schiuma, premendosi gli uni sugli altri.
Cosi, gli uni addensati sugli altri e sugli altri, i Troiani,
tutti di bronzo fulgenti, seguivano i loro signori.
Ettore innanzi ad essi moveva, di Priamo il figlio,
simile a Marte omicida. Reggeva a sé innanzi lo scudo,
denso di pelli tutto, coperto di bronzo battuto:
tutto lucente l’elmo crollava d’intorno alle tempie;
e d’ogni parte, sotto lo scudo avanzando, tentava
se mai sotto l’assalto cedesser le schiere nemiche.
Ma non poteva perciò turbar degli Achivi il coraggio.
E primo, a lunghi passi, Aiace si mosse a sfidarlo:

«O sciagurato, fatti vicino: ché fai vana prova
di sbigottir gli Argivi? Non siamo inesperti di guerra!
Furono sol dalla sferza di Giove fiaccati gli Achivi.
Nutrí speranza in cuore di mettere a sacco le navi?
Ma pronte alla difesa abbiamo le mani anche noi.
Vedrai che molto prima la vostra città popolosa
dovrà per nostra mano cader saccheggiata e distrutta;

e per te stesso, credo sia presso l’istante che a Giove
volger dovrai, fuggendo, preghiera, ed agli altri Celesti,
che sian piú di sparvieri veloci i criniti cavalli
che t’addurranno ad Ilio, coprendo di polvere il piano».
Volò, mentre diceva cosí, dalla destra un uccello,
alta un’aquila a volo. Levarono un grido gli Achivi,
ché l’incorò l’auspicio.
Rispose di Priamo il figlio:
«Millantatore Aiace, che dici, bifolco? Oh! se figlio
fossi io cosí, davvero, di Giove che l’ègida scuote
eternamente, ed Era m’avesse pur dato alla luce,
e onori avessi quanti ne godono Atena ed Apollo,
come ora questo giorno vedrà degli Argivi il malanno,
di tutti; ed anche tu cadrai morto, se il cuore ti basta
che la mia lunga lancia tu attenda! La candida pelle
ti squarcerà: farai sazi gli uccelli ed i cani di Troia,
col grasso tuo,
con l’ossa, vicino alle navi d’Acaia».
Mosse, cosí dicendo, per primo: seguirono i duci,
con alte grida, urlando seguíano le genti. E gli Achivi
grida levarono anch’essi,
ché oblio del valor non li còlse,
fermi attendendo i campioni di Troia. Ed il grido pervenne
d’ambe le parti all’ètra, di Giove alle sèdi raggianti.

{Iliade, libro XIII – traduzione di Ettore Romagnoli}

Immagine: Trionfo di Nettuno, Museo Nazionale del Bardo