Libro IX

Eventi principali:
Su suggerimento di Nestore, Agamennone manda Ulisse, Fenice e Aiace come messaggeri presso la tenda di Achille: per convincerlo a tornare in battaglia, gli offrono una lunga lista di magnifici doni. Ma non servono né doni né le belle parole dei messaggeri: Achille è ancora offeso con Agamennone, non ha fiducia in lui, e si prepara a tornare a Ftia.

Ulisse, Aiace e Fenice vanno come messaggeri presso la tenda di Achille. Gli riferiscono il lungo elenco di doni che Agamennone è disposto a offrirgli come riconciliazione, per convincerlo a tornare a combattere.
… Quelli si fecero avanti, guidandoli Ulisse divino,
stettero a lui dinanzi. Balzò su, stupito, il Pelíde,
Pàtroclo anch’egli si alzò, come vide quegli uomini…

Jean-Auguste-Dominique Ingres: Gli inviati di Agamennone

Agamennone convoca un’assemblea e propone di far ritorno in patria; ma Diomede si oppone. Nestore intanto consiglia Agamennone di mettere delle sentinelle lungo il fossato, e si riserva di dare ulteriori consigli dopo il banchetto

Cosí guardia i Troiani faceano; e i guerrieri d’Acaia
oppressi aveva Fuga, compagna al sanguineo Terrore,
e d’acerbissima doglia percossi eran tutti i più prodi.
Come talor due venti sconvolgono il mare pescoso,
Zefiro e Bora, quando vi piombano sopra improvvisi,
che spiran l’uno e l’altro di Tracia; ed il livido flutto
alto si gonfia, ed alghe sovressa la spiaggia riversa:
similemente in seno sconvolto era il cuore agli Achivi.
Ecco, e l’Atríde, in cuore percosso da grave cordoglio,
mosse, e agli araldi impose di voce canora, che tutti
chiamino, ad uno ad uno, d’Acaia i signori a concione,
senza gridare; ed egli moveva con loro, tra i primi.
Sedettero a concione, crucciati; e Agamènnone surse,
pianto versando, al pari di cerula bruna sorgiva
che da una roccia stilla scoscesa l’oscura sua linfa:
cosí questi, gemendo, piangendo, diceva agli Argivi:
«O condottieri e re degli Argivi, compagni diletti,
Giove Cronide m’ha stretto tra i lacci di grave sciagura.
Crudele! Acconsentì, con un cenno del capo promise
che d’Ilio avrei distrutte le mura, e tornato sarei;
ed ora un tristo inganno mi trama, e dispone che ad Argo
ritorni senza gloria
, poi ch’ò tanta gente perduta.
Questa è la volontà di Giove, possente signore,
che tante e tante cime distrusse di rocche superbe,
e ne distruggerà: ché sommo è il potere di Giove.
E, dunque, tutti, via, pigliamo il partito ch’io dico:
verso la terra patria fuggiam
su le concave navi,
ché l’ampie vie di Troia mai piú non potremo espugnare».
Cosí diceva; e tutti rimasero senza far motto.
Muti restarono a lungo, crucciati, i figliuoli d’Acaia:
pure, alla fine, parlò Dïomede, alto grido di guerra;
«Atríde, io contro te parlerò: ché tu sei sconsigliato
nella concione. Ed è mio diritto, né devi adirarti.
La mia prodezza tu negasti testé, fra gli Argivi:
che imbelle io sono, e senza coraggio dicevi. Di questo
possono, o giovani, o vecchi, risposta dar tutti gli Achivi.
A te, piuttosto, il figlio di Crono concesse un sol dono:
ti die’ che pel tuo scettro tu fossi fra tutti onorato;
ma non ti diede il coraggio, che pure è la forza piú grande.
Deh, sciagurato! Credi tu forse che i figli d’Acaia
imbelli siano, e senza coraggio, cosí come dici?
Se nel tuo seno il cuore t’induce davvero a tornare,
va’, ché la strada è aperta, le navi son presso alla spiaggia
che da Micene t’hanno seguito per mare in gran copia;
ma resteranno qui altri Achei dalle floride chiome,
sinché non abbian Troia distrutta. E se voglion fuggire,
fuggano anch’essi, sopra le navi, alla terra materna;
ma noi, Stènelo ed io, resteremo, sinché non si veda
Ilio distrutta:
ché qui venimmo pel cenno del Nume».
Cosí parlava; e fu tra gli Achivi un clamore d’assenso,
che del Tidíde prode stupiti ascoltavano i detti.
E poi, Nèstore surse fra loro a parlare, che disse:
«Gagliardo piú d’ogni altro tu sei nella guerra, o Tidíde,
e nel consiglio su tutti gli eguali d’età sei valente;
e niun le tue parole vorrà biasimar degli Achivi,
né contro te parlerà. Ma tutto però non hai detto,
ché giovane ancor sei, potresti ben essermi figlio,
il piú giovin dei figli, sebbene assennato favelli
ai prenci Argivi, e quello ch’ài detto fu tutto opportuno.
Su, dunque, io che di te son tanto piú innanzi negli anni,
favellerò, tutto quanto dirò quel che penso; e i miei detti
nessuno spregerà, neppure Agamènnone forte:
ché non ha legge o tribú, non ha focolare quell’uomo
che vago è della guerra civile, ferace d’orrori.
Ma prima, ora obbedire conviene alla notte ed al buio.
Dunque, si appresti la cena; dinanzi alla fossa scavata,
scólte si pongano fuori del muro,
ciascuna al suo posto.
Questi comandi, per me, rivolgo ai soldati: del resto
comanda, Atríde, tu: chè il duce supremo tu sei.
Ed offri indi un banchetto, ché questo è opportuno, agli anziani.
Son le tue tende piene di vino, che giorno per giorno
recano a te dalla Tracia, sul mare, le navi d’Acaia;
e tutto hai quanto basta, ché a molti comandi, al convito.
E quando in molti, poi, saremo adunati, si ascolti
chi dia miglior consiglio: di buono, d’accorto consiglio
hanno bisogno gli Argivi: ché presso le navi i nemici
bruciano molti fuochi: chi mai ne trarrebbe allegrezza?
Sí, questa notte vedrà distrutto l’esercito, o salvo».
Cosí parlava; e gli altri l’udirono, e furon convinti.
Dunque, le scólte, fuori balzarono, d’armi coperte,
intorno a Trasimède sovrano, di Nèstore figlio,
intorno ad Ascalàfo e Iàlmeno, figlio di Marte,
intorno ad Afarèo, intorno a Meríone, a Dípíro,
a Licomède intorno, figliuolo divin di Creonte.
Guidavan sette duci le scólte, e ciascuno dei duci
seguian cento soldati, stringendo le lunghe zagaglie.
Mossero dunque; e in mezzo seder fra la fossa ed il muro,
e quivi acceso il fuoco, ciascuno apprestò la sua cena.
Tutti gli anziani allora l’Atríde adunò nella tenda,
e cibi ad essi offerse,
che ognuno a sua brama ne avesse.

Nestore propone di andare a riconciliarsi con Achille. Agamennone acconsente e fa un lungo elenco di doni che intende fargli.


Su le vivande pronte gittarono quelli le mani;
e poi che fu sedata la brama del cibo e del vino,
Nèstore imprese il suo disegno ad intessere primo,
ché il suo consiglio, già pel passato, fu sempre il migliore.
Dunque, pensando al bene di tutti, cosí prese a dire:
«O glorioso Atríde, di genti, o Agamènnone, sire,
le mie parole avranno da te compimento e principio,
perché su molte genti l’impero tu stendi, e lo scettro
Giove ti diede, e le leggi, ché tu governare potessi.
Per questo piú d’ogni altro parlare tu devi, e ascoltare,
e ciò che un altro dice, compirlo, se mai la sua mente
gli suggerisca il bene: ché l’esito tu lo disponi.
Quello che sembra a me pel meglio, ora dunque t’espongo,
ché mai nessuno avrà consiglio migliore di quello
che adesso io vi dirò, che m’empie or la mente, e da un pezzo,
dal dí che tu, rampollo di Giove, a la tenda d’Achille
furente andasti, e a lui rapisti la figlia di Brise,

né il mio consiglio al tuo fu conforme: a distoglierti, io dissi
molte parole; ma tu, cedendo al tuo cuore superbo,
vilipendesti l’uomo che onorano sino i Celesti,
ché gli togliesti il suo dono
, ché ancora lo tieni. Ma ora
si cerchi per che via mitigarlo possiamo o placarlo,
doni mirabili offrendo, parole piú dolci del miele
».
E a lui cosí rispose l’Atríde signore di genti:
«Vecchio, gli errori miei son veri, né dici menzogna.
Fui cieco, neppure io lo posso negare: ché vale
per molti e molti, l’uomo cui Giove diliga di cuore,
come or questi onorò, struggendo le schiere d’Acaia.
Ma poi che la funesta mia mente mi trasse all’errore,
voglio di nuovo adesso placarlo con doni infiniti;
e innanzi a tutti voi descrivo i magnifici doni.

Sette tripodi, intatti dal fuoco, dieci aurei talenti,
venti lebèti, che tutti scintillano, venti corsieri
forti, che premii sempre solean dalle gare portarmi:
privo di pane mai non può essere l’uomo che li abbia,
mai non sarà sprovvisto dell’oro, che tanto è pregiato:
tanti hanno vinto premii per me, quei veloci corsieri.
Poi, sette donne di Lesbo, spertissime d’opere egregie,
io gli darò, che scelsi per me, quando ei Lesbo espugnava,
che per bellezza tutte vincean quante femmine sono.
Io queste gli darò: la figlia di Brise fra loro
anche sarà
, che un giorno gli tolsi; ed un giuro solenne
faccio: che il letto mai non ne ascesi, che seco non giacqui,
come costume è pure degli uomini tutti e le donne.
Ei tutti quanti avrà questi doni; e se un giorno i Celesti
consentano che cada la rocca di Priamo a terra,

quando noialtri Achei saremo a spartire la preda,
venga, e a sua posta d’oro la nave ricolmi e di bronzo,
e venti poscia elegga per sé delle donne troiane,
quelle che a lui piú belle parranno, dopo Elena argiva.
Se ad Argo achiva poi, della terra mammella, torniamo,
genero mio lo bramo, diletto non meno d’Oreste,
l’ultimo figlio mio, che in mezzo ad ogni agio è nutrito.
Nella mia casa bene costrutta, mi crescon tre figlie,
Ifïanassa, Laodíce, Crisòtemi: scelga fra queste
quella che vuole, e l’adduca, né doni di nozze io pretendo,
alla magion di Pelèo: ché anzi, gradevoli doni
io gli darò, quanti mai ne diede alcun padre alla figlia.
Sette gli voglio dare munite città popolose,
Ènope, Cardamíle, con Ire di pascoli ricca,
Fere, la molto santa, dai prati pinguissimi, Antèa,
Epèa la bella, e, tutta coperta di vigne, Pedàso,
tutte vicino al mare, di Pilo sabbiosa ai confini.
Uomini in tutte opulenti di greggi e di bovi han dimora,
che a lui, come ad un Nume, presenti offriranno, che sotto
lo scettro suo, larghezza daranno di pingui tributi.
Io tutto questo farò, se dall’ira desiste. Ed ei ceda:
Ade soltanto non sa piegare, non cede a lusinghe;
ed è fra tutti i Numi, per questo, odioso ai mortali:
si sottometta a me, però ch’io son re piú possente,
però ch’io sono, penso, a lui piú provetto negli anni».
E a lui Nèstore questo rispose, il guerriero gerenio:
«O glorïoso Atríde, di genti, Agamènnone, sire,
non son da poco, no, questi doni che offri ad Achille.
Su via, scelti campioni si mandino, e senza indugiare
si rechino alla tenda d’Achille figliuol di Pelèo.
Su’, voglio sceglierli io; né alcuno m’opponga rifiuto.
Scelgo per primo, e sia duce, Fenice diletto ai Celesti:
il grande Aiace sia secondo, ed Ulisse sia terzo;
e degli araldi, con sé conducano Euríbate e Odío.
Acqua ora date alle mani, si faccia silenzio d’intorno,
si che la prece si levi, se mai ci commiseri, a Giove».
Cosí diceva; e a tutti sembrarono saggi i suoi detti.
Súbito poscia gli araldi versarono l’acqua alle mani,
empierono i cratèri di vin sino all’orlo i valletti;
e poi, libato, a tutti partirono il vin nelle coppe.
E poi ch’ebber libato, bevuto ciascuno a sua brama,
fuor dalla tenda usciron del sire di popoli Atríde,
e assai consigli ad essi die’ Nèstore, il sire Nelíde,
con gli occhi a questo e a quello volgendosi, e massime a Ulisse
come potessero fare convinto il figliuol di Pelèo.
Mossero dunque lungo la spiaggia del mare sonante,
preci a Nettuno volgendo, che facile ad essi rendesse
piegar l’altero spirto del prode nipote d’Eàco.

Achille si trova con Patroclo nella sua tenda e accoglie bene i messaggeri offrendo un banchetto. Ulisse, abile oratore, gli parla per convincerlo a tornare.


Giunti alla tenda cosí dei Mirmídoni presso, e alle navi,
l’eroe trovar
, che il cuore molcía con la cetera arguta
adorna bella, e un giogo d’argento stringeva i due bracci:
l’ebbe allorché la rocca d’Etíone espugnò, tra le prede.
Gesta d’eroi cantava, molciva con esse il suo cuore.
Pàtroclo solo, a lui d’accanto sedeva in silenzio,
ed attendeva quando smettesse il Pelíde il suo canto.
Quelli si fecero avanti, guidandoli Ulisse divino,
stettero a lui dinanzi. Balzò su, stupito, il Pelíde,
Pàtroclo anch’egli si alzò, come vide quegli uomini; e ad essi
volse un saluto, e disse Achille veloce: «Salvete!
Diletti a me giungete, per cruccio ch’io m’abbia: mi siete
cari su tutti gli Achei. Che grande bisogno vi spinge?».
E, cosí detto, Achille divino li fece avanzare,
posare sopra i seggi li fece, e i purpurei tappeti.
Quindi a Pàtroclo disse, che gli era vicino: «Il cratère
prendi piú grande che c’è, figliuol di Menezio; ed un mischio
fa’ ben gagliardo, e metti dinanzi a ciascuno una coppa;
ch’or sotto la mia tenda son giunti gli amici piú cari».
Disse. E del caro amico fu Pàtroclo pronto al comando.
Poscia, accostato un grande tagliere alla vampa del fuoco,
sopra di pingue capra vi pose, e di pecora il dorso,
e d’un maiale pasciuto la schiena fiorente di grasso.
Tutto tagliò con arte, i pezzi infilò negli spiedi,
gran fuoco il figlio accese, che un Nume parea, di Menezio.
E poi che il fuoco fu bene acceso, e la fiamma languiva,
tutta spianò la brace, poggiò sugli alari gli spiedi,
di sale cospargendo, di vino le carni sospese.
Poi che arrostite l’ebbe, posate sovressi i taglieri,
Pàtroclo prese il pane, lo distribuí su la mensa,
entro canestri belli: le carni divise il Pelíde.
Ed egli si sede’ dinanzi ad Ulisse divino,
alla parete opposta. L’incarico a Pàtroclo diede
poscia, di fare ai Numi le offerte: le offerte nel fuoco
quegli gittò; poi tutti disteser sui cibi le mani.
E poi che fu bandita la brama del cibo e del vino,
volse ad Aiace un cenno Fenice. Ma Ulisse lo vide,
ed una coppa empiuta, rivolse un saluto ad Achille:
«Salute, Achille! A noi non manca la mensa gradita
entro la tenda, sia dell’Atríde Agamènnone, sia
qui, nella tua, come ora, che cibi vi sono in gran copia
da banchettare. Ma ora pensar non possiamo a banchetti:
ché troppo grande sciagura dobbiamo vedere, o divino,
e sbigottiamo: siamo nel dubbio, se salve le navi
saranno, oppur distrutte
, se tu tua prodezza non vesti:
poi che posto hanno il campo vicino alle navi ed al muro,
di Troia i figli altieri, coi loro alleati famosi,
e bruciano pel campo gran fuochi, né, dicono, sosta
faranno ancora: voglion piombare sui negri navigli.
Auspíci ad essi il figlio di Crono mandati ha da destra,
folgoreggiando; e infuria, fremente d’orgoglio e di forza,
Ettore, terribilmente, ché in Giove confida, e non teme
uomini piú, né Numi, sí grande furore l’ha invaso;
e prece fa che presto si mostri l’Aurora divina,
ché allora gli alti aplustri minaccia stroncar delle navi,
arder col fuoco vorace le navi medesime, e quivi
fare sterminio di tutti gli Achei sgominati dal fumo
.
Ed orrida paura mi domina il cuore, che i Numi
voglian le sue minacce compiute, e sia nostro destino
morir lontani d’Argo, sottesse le mura di Troia.
Ma su, vedi se vuoi dall’urto schermir dei Troiani,
benché già tardi, i figli d’Acaia che giacciono oppressi:
tu stesso poi cordoglio ne avresti; ma piú non si trova
farmaco al male, quand’è compiuto: e tu prima provvedi
come tu possa lontano tener dagli Achivi il mal giorno.
Eppure questo, o caro, ti disse tuo padre Pelèo,
quel di ch’ei t’inviò da Ftia, con l’Atríde, alla guerra:
«Atena ed Era a te, daranno, o figliuolo, vittoria,
se lo vorranno; ma tu nel seno il magnanimo cuore
sappi frenare: è meglio saper contenere lo sdegno.
L’ira tu sempre allontana,
che macchina mali; e gli Argivi,
giovani o vecchi, tanto di piú ti sapranno onorare».
Cosí diceva il vecchio; ma tu l’hai scordato. Sù, ora
smetti, deponi l’ira che i cuori divora;
e l’Atríde
degni presenti a te darà, se tu l’animo plachi.
Senti che doni a te promette Agamènnone sire.
Sette tripodi, intatti dal fuoco, dieci aurei talenti,
venti lebèti, che tutti scintillano, venti corsieri
forti, che a lui delle gare portare solevano i prèmi;
privo di pane mai non può esser l’uomo che li abbia,
mai non sarà sprovvisto dell’oro, che tanto è pregiato:
tanti hanno vinto premi per lui, quei veloci corsieri.
Poi sette donne di Lesbo, spertissime d’opere egregie,
ei ti darà, che scelse per sé, quando Lesbo espugnasti,
che per bellezza tutte vincean quante femmine sono.
Ei queste ti darà: la figlia di Brise fra loro
anche sarà, che un giorno ti tolse; ed un giuro solenne
farà: che il letto mai non ne ascese, che seco non giacque,
come costume è pure degli uomini tutti e le donne.
Tu tutti quanti avrai questi doni; e se un giorno i Celesti
consentiranno che crolli la rocca di Priamo al suolo,
quando noialtri Achei saremo a spartire la preda,
vieni, e a tua posta d’oro la nave riempi e di bronzo;
e venti poscia eleggi per te delle donne troiane,
quelle che a te piú belle parranno, dopo Elena argiva.
Se ad Argo achiva poi, della terra mammella, ritorni,
genero suo ti brama, diletto non meno d’Oreste,
l’ultimo figlio suo, che in mezzo ad ogni agio è nutrito.
Nella sua casa bene costrutta, gli crescon tre figlie,
Ifïanassa, Laodíce, Crisòtemi: scegli pur quella
che brami, di Pelèo nella casa conducila; e doni
di nozze ei non pretende: ché anzi, gradevoli doni
ei ti darà, quanti mai ne diede alcun padre alla figlia.
Sette poi ti darà munite città popolose,
Énope, Cardamíle, con Ire, di pascoli ricca,
Fèa, con la molto santa Antèa dai pinguissimi prati,
Epèa la bella, e, tutta coperta di vigne, Pedàso,
tutte vicino al mare, di Pilo sabbiosa ai confini.
Uomini in tutte han dimora di greggi opulenti e di bovi,
che a te, come ad un Nume, presenti offriranno, che sotto
lo scettro tuo, larghezza daranno di pingui tributi.
Questi i presenti che a te farà, se tu l’ira deponi.
Ché pur se troppo in odio ti sono l’Atríde e i suoi doni,
muoviti almeno a pietà degli altri compagni, che stanno
sgomenti, esterrefatti, pel campo, che al pari d’un Nume
t’onoreranno: grande fra loro sarà la tua gloria.
Ettore cogliere adesso potresti: ché certo vicino
or ti verrebbe, tanta è la furia che l’arde; e millanta
che niuno a par gli sta, dei Dànai venuti per mare».

Achille rifiuta i doni di Agamennone, non lo stima più. Vuole tornare a Ftia.

E a lui rispose Achille veloce con queste parole:
«Figlio divin di Laerte, Ulisse dai molti lacciòli,
una parola senza riguardo ti debbo pur dire,
cosí come io la penso, cosí come avrà compimento,
perché chi qua chi là non veniate a garrirmi d’intorno.
Per me, come le porte d’Averno odioso è quell’uomo
che nel pensiero una cosa nasconde, ed un’altra ne dice.
Io chiaro ti dirò qual mi sembra l’avviso migliore.
Farmi convinto, no, non potrà l’Agamènnone Atríde,
né gli altri Dànai tutti;
perché niuna grazia io riscossi
del mio combatter senza mai tregua le genti nemiche.
Uguale premio attende chi sempre combatte e chi poltre,
sono tenuti nel pregio medesimo il prode e il codardo.
E nulla resta a me, poiché tanti crucci ho sofferto,
sempre la vita mia nelle zuffe ponendo a cimento.
Come ai pulcini il cibo portare un aligero suole,
quand’ei l’abbia trovato, che nulla per lui ne rimane,
del pari, io molte notti passai, senza chiudere ciglio,
molte giornate passai fra sangue e tumulto di guerre,
con gl’inimici pugnando, a pro’ delle vostre consorti.
Dodici io con le navi distrussi città popolose,
undici a terra, lo affermo, nei piani feraci di Troia.
Da tutte quante, egregi tesori in gran copia raccolsi,
e tutti li portai, li diedi al figliuolo d’Atrèo
.
Ed ei, restando indietro, vicino alle rapide navi,
li riceveva; e poco spartiva, ed il piú si teneva.
Ma, tuttavia, qualche dono faceva ai piú prodi sovrani,
ed essi li han tuttora: me solo fra tutti gli Achivi
ei n’ha privato, e si tiene la cara mia sposa
. E sia! Dorma
vicino a lei, la goda. Ma allora, che causa sospinge
gli Achei contro i Troiani? Perché tanta gente raccolse
l’Atríde, e qui l’addusse? Non forse per Elena bella?
Oppur gli Atrídi soli, fra quanti sono uomini al mondo
aman le spose loro? Chiunque ha valore e saggezza
ama la propria sposa, la cura, come io quella amavo
con tutto il cuore mio, sebbene era preda di guerra.
Ora, poiché mi frodò, mi tolse il mio dono, non speri
piú di tentarmi, di farmi convinto, or che ben lo conosco.

Ma con te cerchi, Ulisse divino, e con gli altri sovrani,
lungi l’infesto fuoco vorace tener dai navigli.
Anche senza di me compiute ha molte opere grandi,
ha costruito un muro, scavata ivi sotto una fossa
grande, profonda, e v’ha dinanzi confitti dei pali.
Però, neppur cosí trattiene la furia omicida
d’Ettore. Quando alla guerra movevo coi figli d’Acaia,
Ettore no, non voleva pugnare lontan dalle mura,
ma solo nello spazio tra il faggio e le porte Sceèe,
dove una volta m’attese, e a pena di man m’usci salvo.
Ma ora, poi, che voglia non ho piú di seco azzuffarmi,
a Giove e a tutti i Numi dimani farò sacrificio,
quindi caricherò, poi che in mar le avrò spinte, le navi,

e tu vedrai, se pure tu vuoi, se la cosa t’importa,
le navi mie su l’alba solcar l’Ellesponto pescoso,
e le mie genti dentro piegarsi a gran forza di remi;
e se ci manda, il Nume che scuote la terra, bonaccia,
tre giorni ancora, e il suolo vedrò della fertile Ftia.
Là molti beni lasciai, quando io qui ne venni in malora,
molto altro oro di qui, con fulvido rame, con donne
dalla cintura bella riporto, con candido ferro,
tutto ch’io m’ebbi in sorte. Si tenga Agamènnone il dono
che pria m’aveva offerto, che poi con la forza mi tolse.
Or tutto questo di’, come io te lo dico, all’Atríde,
palesemente, perché si cruccino tutti gli Achivi,
se ancora alcuno ei voglia dei Dànai trarre in inganno,

di sfrontatezza sempre coperto com’è. Ma per quanto
muso di cane, me non potrebbe guardarmi negli occhi.
Non vo’ nessun accordo con lui, né a parole, né a fatti,
ch’ei mi frodò,
m’offese. Ma piú non saprebbe ingannarmi
con le sue ciance: gli deve bastare. Ora, vada in malora,
mi lasci stare in pace: ché Giove l’ha tolto di senno.
Sono i suoi doni odiosi per me, men che nulla io li pregio.
Neppur
se dieci volte, neppure se venti altrettanti
ei me n’offrisse di quanti n’abbia ora, od aver mai ne possa,
oppur quanti affluire ne vedono Orcòmeno, o Tebe
d’Egitto, ove le case son tutte ricolme di beni,
e cento porte vi sono, varcare duecento guerrieri
possono sotto ciascuna, guidando i cavalli ed i carri;
sè me ne desse quant’è la polve o l’arena del mare,
neppur cosi l’Atride potrebbe piegare il mio cuore,
se pria tutto non lava l’oltraggio che il cuore mi cruccia.
Sposa la figlia avere non vo’ d’Agamènnone Atride,
neppur se di bellezza dovesse emulare Afrodite,
neppur se sperta fosse nell’opere al pari d’Atena,
non la vorrei sposare neppure cosi. Fra gli Achivi
scelga qualche altro che più gli convenga, che più sia possente;
perché, se salvo i Numi mi vogliono, e in patria io ritorno,
bene saprà Pelèo cercarmi da solo una sposa.
Molte fanciulle sono d’Achivi, per l’Ellade e in Ftia,
figlie di principi prodi, che sono presidio alle rocche:
quella ch’io bramo di queste, farò mia fedele consorte.
E molto a questo il cuore mio forte nel seno mi spinge,
ch’io lí mi scelga, adatta per me, la legittima sposa,
e le dovizie mi goda raccolte dal vecchio Pelèo.
Perché la vita mia non posson pagar quanti beni
ebbe, raccontano, un di’, la città popolosa di Troia,
quando era pace, avanti che quivi giungesser gli Achivi,
non quanti in sé ne chiude la soglia pietrosa del Nume
saettatore Apollo, nei clivi rocciosi di Pito.
Poiché predare bovi si possono, e floride greggi,
tripodi puoi conquistare, cavalli di bionda cervice;
ma che ritorni d’un uomo lo spirito, quando la cerchia
lasciò dei denti, cosa non è che si predi o s’acquisti.

E Tèti a me lo disse dai piedi d’argento, mia madre,
che me duplice fato conduce alla fine mortale:
se qui resto, se intorno combatto alle mura di Troia,
più non ritornerò, ma sarà la mia gloria immortale;
se a casa invece torno, se torno alla terra materna,
spenta sarà la mia gloria, ma lunga sarà la mia vita,
né sopra me piomberà veloce il destino di morte.
Ed anche a tutti gli altri vorrei questo mònito dare,
di ritornare in patria, perché non vedrete la fine
d’Ilio scoscesa: troppo la mano a proteggerla tende
Giove tonante,
troppa baldanza animò le sue genti.
Or dunque, voi movete, recate ai sovrani d’Acaia
questo messaggio: poiché tale è degli anziani l’ufficio,
che trovino, pensando, partito migliore di questo,
che salve ad essi faccia le navi e le turbe d’Acaia
sopra le navi ricurve; poiché non agevole è questo,
ch’ànno pensato, per essi: ché io non desisto dall’ira.
Ma qui, presso di noi, rimanga Fenice a dormire,
e poi meco, dimani, sovresse le concave navi
torni alla patria, se vuole: ché a forza condurlo non voglio”.
Cosí diceva. E tutti rimasero senza parola,
stupiti ai detti suoi: tanto furono fieri e gagliardi.

Anche Fenice, che ha allevato Achille come un figlio, prova a convincerlo a tornare. Ma Achille persiste nella sua ira.


Pure, alla fine, il vecchio signor di cavalli Fenice,
disse, piangendo, ché troppo temea per le navi d’Acaia:
«Se tu davvero fitto ti sei nella mente il ritorno,
fulgido Achille, e non vuoi schermire le navi d’Acaia
dalle voraci fiamme, perché t’arde l’anima d’ira,
come io potrei da te lontano, o figliuolo diletto,
qui rimanere solo? Con te mi mandava Pelèo,
quel dí che t’inviò da Ftía, per venir con l’Atríde,
ch’eri tuttora fanciullo, che ancor non sapevi le guerre,
né le concioni, dove la fama degli uomini cresce.
Per questo ei m’inviò, perché tutto ciò t’insegnassi:
a pronunciare acconce parole, ed a compiere gesta.
Cosí, lungi da te restare, o figliuol, non vorrei,
neppur se a me promessa facesse un Iddio di raschiarmi
via la vecchiezza, e farmi tornar giovinetto, qual’ero
quel di ch’Ellade prima lasciavo e le donne sue belle.
Del padre mio la furia, d’Amíntore figlio d’Ormèno
fuggivo. Era adirato con me per la ganza sua bella.
Esso l’amava; e la sua legittima sposa, mia madre,
più non amava. Ed essa mi stava lí sempre a pregare
ch’io seducessi la ganza, per far ch’ella il vecchio odïasse.
Io mi convinsi, e lo feci; ma come mio padre lo seppe,
mi maledí, contro me imprecò dall’Erinni odïose
ch’io sulle mie ginocchia veder mai non possa un figliuolo
caro, nato da me: compiuto gli resero il voto
Giove che regna sotterra, Persèfone, Diva tremenda.
Col bronzo acuto allora mi venne l’idea di svenarlo:
ma l’ira mia frenò qualcuno dei Numi; e la fama
che avrei, pensar mi fece, fra gli uomini, e i biasimi grandi,
sicché me parricida chiamar non dovesser gli Achivi.
Ma quindi innanzi piú il cuor non mi resse nel seno
di rimaner nella casa dov’ero odïoso a mio padre.
Molto i parenti, molto, venendomi attorno, i cugini,
me trattener con le preci tentarono sotto quel tetto,
molte sgozzarono pecore pingui, con lucidi bovi
dal torto pie’, gran copia di porci fiorenti di grasso
furono rosolati, distesi sul fuoco d’Efèsto,
molto vin pretto fu bevuto dagli orci del vecchio.
Per nove notti a me rimasero vigili attorno,
guardia facendo alterna; né mai si spengevano i fuochi:
l’uno, nel ben costrutto recinto del portico ardeva.
dentro il vestibolo, un altro del talamo innanzi alle porte.
Ma quando giunse po col buio la decima notte,
le ben connesse porte del talamo allora sfondai,
fuori balzai, con un salto varcai del recinto le mura,
agevolmente alle guardie sfuggendo e a le vigili ancelle.
E poi, per l’ampie vie de l’Ellade corsi fuggiasco,
e giunsi a Ftía, ferace di zolle, nutrice di greggi,
dove di cuore m’accolse benevolo il sire Pelèo,
m’amò, sí come un padre fornito di molte sostanze,
amar potrebbe un figlio che unico fosse, e bambino,
ricco mi rese, mi diede di genti in gran copia il governo.
Sui Dòlopi, cosi, regnavo, ai confini di Ftía.
E te resi quale ora tu sei, pari ai Superi, Achille,
con amorosa cura: ché tu con niun altro volevi
recarti ad un banchetto, né in casa gustare alcun cibo,
se prima su le mie ginocchia preso io non t’avessi,
e sminuzzato il cibo, pasciuto, mesciuto da bere.

E spesso a me sul petto la tunica molle rendesti
di vin, che tu spruzzavi nei tuoi fanciulleschi capricci.
Cosí molte fatiche per te, molte pene soffersi,
questo pensando, che a me gli Dei non concessero un figlio,
nato da me; ma come mio figlio te, Achille divino,
crebb
i, perché da sorte funesta tu un di mi schermissi.
Su via, domina, Achille, lo sdegno tuo grande. Serbare
cuore implacato a te non s’addice: si piegano anch’essi
i Numi. Essi han pur tanto più forza, decoro e valore;
eppure, con incensi di vittime e voti solenni,
con libagioni ed omenti, li piegano gli uomini, e preci,
quando fallisca, o franga qualcuno le leggi divine.
Poiché ci son le Preci, figliuole di Giove possente,
zoppe, coi volti rugosi, con gli occhi che guardano losco,
che dietro alla Follia s’affannano a spingere il piede.
È vigorosa Follia, gagliarda nei piedi; e per questo
passa dinanzi a tutti, si lancia degli uomini a danno
sopra la terra tutta: poi tentan rimèdi le Preci.
E chi rispetta, quando s’appressan, le figlie di Giove,
esse gli rendono copia di beni, l’ascoltan se prega;
chi le respinge, invece, chi oppone durezza e rifiuto,
esse rivolgono a Giove, figliuolo di Crono, la prece
che lui segua Follia, ch’ei sconti col danno la colpa.
Achille, dunque, tu di Giove alle figlie il rispetto
che suol di tutti i buoni piegare le menti, concedi.
Se non t’offrisse doni l’Atríde, se d’altri promessa
non ti facesse, e sempre serbasse immutato il corruccio,
non io t’esorterei che tu deponessi lo sdegno,
che soccorressi gli Argivi, per grande che fosse il bisogno.
Ma invece molti doni t’offre ora, molti altri promette;
e ti mandò, per farti preghiera, i più prodi campioni
scelti fra tutti gli Achei, a te fra gli Argivi i più cari.
I passi loro tu non rendere vani, e i lor detti.
Niun biasimarti prima, poteva che tu ti crucciassi:
cosí pure udivamo le gesta degli uomini prischi,
quando invadesse furia di cruccio qualcun degli eroi;
ma le parole poi placarli potevano, e i doni.
Io questo fatto ricordo, che nuovo non è, ma ben vecchio,
come esso avvenne; e a voi lo voglio narrar, cari amici.

Gli Ètoli, prodi alla pugna, facean per Calídone bella,
guerra ai Cureti; e gli uni facevano strage degli altri,
gli Ètoli, per salvare Calídone bella, i Cureti
desiderosi, invece, di prenderla e farne sterminio.
Ora, un malanno inviò agli Ètoli Artèmide, irata,
che non le avesse offerte primizie nel poggio dell’orto
Enèo, mentre ecatombi godevano gli altri Celesti.
Sola non ebbe offerte la figlia di Giove possente,
oblio che fosse, o spregio, che l’anima cieca gli rese.
E irata allor, la Diva fanciulla che vaga è di frecce,
contro gli spinse un cinghiale di candide zanne, selvaggio,
che devastava, con dànno perenne, le terre d’Enèo,
l’uno su l’altro a terra svelleva molti alberi grandi,
con le radici via sbarbate, col fiore dei pomi.
Morte gli diede infine il figlio d’Enèo, Meleagro,
che cacciatori e segugi da molte città quivi addusse;
ché non bastò la forza di pochi mortali, a domarlo,
tanto era grande; e molti mandò su la pira fatale.
Rissa la Diva allora d’intorno al cinghiale e tumulto
per la sua testa accese, pel cuoio di setole fitto,
fra gli Ètoli dal cuore gagliardo, e la gente Curèta.
Ora, sinché pugnò Meleagro diletto di Marte,
trista ai Curèti volse la sorte; né fuor dalle mura
reggevan dei nemici, sebben molti fossero, all’urto.
Ma quando Meleagro fu invaso dall’ira, che il petto
a molti altri pur gonfia, per quanto provvisti di senno,
contro sua madre Altèa, crucciato nel cuor, si ritrasse
presso la sposa sua, Cleopatra dal fulgido viso,
figliuola di Marpessa dall’agil malleolo, figlia
d’Evèno, e d’Ida, ch’era fra gli uomini tutti il più forte:
d’Ida che per la sua fanciulla dagli agili piedi
tendere l’arco osò contro Febo che lungi saetta.
Lei nella casa il padre, la madre onorata. Alcïone
solean chiamare, nome di vezzo, perché la sua madre
avea, come alcïone che sempre si lagna, gemuto
quando rapita Febo l’aveva, che lungi saetta.
Dunque, vicino a lei, Meleagro smaltiva il suo cruccio,
perché la morte ad esso aveva imprecata sua madre.
Molto la terra altrice percossa ella avea con le mani,
Ade invocando, e la Dea spietata Persèfone, al suolo
su le ginocchia stesa, bagnando di lagrime il grembo,
che desse al figlio suo la morte; e dall’Èrebo, Erinni
l’udí, che il cuor mai placa, che libra fra tenebre il volo.
Ed urla e insiem tumulto sorgevano intorno alle mura,
percossa era la terra. Degli Ètoli allora i vegliardi
lui scongiurâr che uscisse, movesse a difesa: i più santi
ministri a lui dei Numi mandâr, promettendo un gran dono.
Dove eran pingui più di Calídone amabile i campi,
quivi dissero a lui che un terreno scegliesse, il piú bello,
grande cinquanta gíe, metà da piantarci la vite,
l’altra metà nel piano, da semina, d’alberi spoglia.
Molto Enèo lo pregò, vegliardo signor di cavalli,
sopra la soglia stando del talamo bene costrutto,
le ben connesse imposte scotendo, pregando suo figlio:
molto pregâr le sue sorelle, e la madre onorata;
ed egli sempre piú persistea nel rifiuto: i compagni
molto pregaron, quanti migliori ne aveva, e piú cari;
ma non poteron, neppure cosí, far convinto il suo cuore,
sinché non fu percosso di colpi il suo talamo, e ascesi
sopra la torre, i Curèti già davano al fuoco la rocca.
E allor, la sposa bella, gemendo, implorò Meleagro,
e ad uno ad uno tutti gli strazi gli espose, che quando
cade espugnata una rocca, s’abbattono sopra le genti:
cadono gli uomini spenti, le fiamme divoran le case.
gli stranïeri via conducono pargoli e donne.
Udendo questi orrori, fu scosso alla fine il suo cuore:
chiuse le membra tutte nell’armi sue lucide, e mosse.
Dunque, cosí tenne lungi dagli Ètoli il giorno fatale,
cedendo al proprio cuore. Né gli altri gli diedero i doni
molti e graditi; eppure salvò da sciagura la patria».
Ma tu simili idee non volger, né un dèmone tristo
a ciò ti spinga, o caro: ché peggio sarebbe, soccorso
recar, quando le navi bruciassero: accetta i presenti,
e vieni: onore a te faran come a un Nume gli Achivi
.
Ma se la guerra dovrai micidiale affrontar senza doni,
neppur se l’inimico respingi, avrai simile onore».
E a lui questo il Pelíde dai piedi veloci rispose:
«Fenice, vecchio babbo, di Giove rampollo, bisogno
non ho di questo onore. La sorte di Giove, confido,
onore a me darà, trattenendomi presso le navi,
sin che il respiro io tragga, sinché salde avrò le ginocchia.
E un’altra cosa ancora ti dico, e tu figgila in mente:
piú non volermi il cuore turbare con pianti e querele,
per compiacere l’eroe figliuolo d’Atrèo: tu non devi
amarlo, se non vuoi che teco mi crucci, io che t’amo:
a te conviene offesa recare a chi offesa mi reca.

Sovrano meco sii, partecipa meco ogni onore.
Vadano questi a recare l’annuncio; e in un morbido letto
meco tu resta qui: diman, come fulga l’Aurora,
decideremo se in patria tornare convenga, o restare».

Infine Aiace fa notare ad Achille che la sua ira è eccessiva; Achille comunque non vuole perdonare Agamennone e congeda tutti. Fenice si ferma a dormire presso la sua tenda perché partirà con lui


Disse. E con gli occhi, senza parlare, fe’ a Pàtroclo cenno
che per Fenice apprestasse un solido letto, e che gli altri,
via dalla tenda, al ritorno pensassero. E Aiace divino,
di Telamóne figlio, parlò queste alate parole:
«O di Laerte figlio divino, scaltrissimo Ulisse,
andiam: ché non mi sembra che un esito ai nostri discorsi
si possa avere, almeno da questo viaggio. Al piú presto
dare convien la risposta, per quanto non buona, agli Achivi,
che certo àdesso stanno raccolti in attesa; ma in seno
rempiuto ha il cuore, Achille magnanimo, d’ira selvaggia,
lo sciagurato!
, e nulla gl’importa l’amor dei compagni,
che a lui, su ogni altro, presso le navi rendevano onore.
Egli è senza pietà! Persin da chi uccise il fratello
riceve altri l’ammenda, persin da chi uccise il figliuolo,
e riman l’uno, poiché la pena espiò, nel paese,
l’altro alla furia sua pon freno ed al cruccio del cuore,
poscia che ottenne il riscatto; a te, sol per una fanciulla,
furia implacata e sinistra nel cuore istillarono i Numi.
Or te ne offriamo sette, fanciulle, bellissime tutte,
ed altri doni assai. Su’ via, placa dunque il tuo cuore,
la casa tua rispetta: ché sotto il tuo tetto ora siamo,
dove mandati ci hanno gli Achivi; e i piú cari e devoti
a te d’esser crediamo fra tutti gli Achivi, o Pelíde».
E a lui rispose Achille veloce con queste parole:
«Di Telamóne figlio, signore di popoli, Aiace,
è tutto quanto quello ch’ài detto, conforme al mio cuore;
ma il seno a me si gonfia di bile, ogni volta ch’io penso
a ciò ch’è stato, in che vilipendio mi pose l’Atríde,
che m’ha trattato come s’io fossi un ribaldo randagio
.
E dunque, andate, voi, ciò ch’io detto v’ho, riferite,
ché io darmi non voglio pensier della guerra cruenta,
se prima Ettore, figlio divino di Priamo guerriero,
giunto alle navi e alle tende non sia dei Mirmídoni, strage
fatta non abbia d’Argivi, struggendo col fuoco le navi.
Vicino alla mia tenda, vicino alla nave mia negra,
dovrà, per quanto ei sia bramoso di pugne, fermarsi».
Cosí diceva. E, presa ciascuno la duplice coppa,
libato presso i legni, tornarono: e Ulisse era guida.
Pàtroclo l’ordine diede ai cari compagni e a le ancelle
che per Fenice un letto stendessero solido, in fretta.
E quelle, pronte, come disse egli, apprestarono il letto,
e la coperta, ed il vèllo, e il molle coltrone di lino;
e quivi giacque il vecchio, l’Aurora divina attendendo.
Dormiva Achille anch’esso, in fondo alla solida tenda,
e a lui presso una donna che aveva condotta da Lesbo,
la figlia di Forbante dal viso gentil, Dïomeda.
Pàtroclo all’altro lato giaceva; e gli stava daccanto
Ifi elegante: a lui donata l’aveva il Pelíde
quando ebbe presa Sciro scoscesa, la rocca d’Evèno.

Ulisse e Aiace tornano da Agamennone e gli riferiscono che Achille è ancora offeso.


Giunsero intanto alla tenda, quegli altri, del figlio d’Atrèo,
e con le coppe d’oro li accolsero i figli d’Acaia,
chi qua, chi là, dimande volgendo, levandosi in piedi.
E parlò prima il re di genti Agamènnone, e disse:
«Dimmi, su’ dunque, Ulisse famoso, gran vanto d’Acaia,
s’egli le navi intende schermire dal fuoco nemico,
o se rifiuta, ed ira gl’invade ancor l’anima grande».
E Ulisse a lui rispose, l’eroe paziente divino:
«O glorioso Atríde, di genti, o Agamènnone, sire,
spengere l’ira sua colui non intende, ma sempre
più di furore è pieno, né te né i tuoi doni gradisce.

E disse che da te tu provveda fra il popolo argivo,
come potrai salvare le navi e le turbe d’Acaia.
E la minaccia aggiunse, che appena si mostri l’Aurora,
sul mare spingerà le navi dai solidi banchi;
ed anche gli altri Achei soggiunse che avrebbe esortati
a ritornare in patria; perché non vedrete la fine
d’Ilio scoscesa: troppo la mano, a proteggerla, tende
Giove tonante, troppa baldanza animò le sue genti.
Cosí disse: costoro che meco lí vennero, Aiace
e gli assennati araldi, lo posson ripetere a voi.
Fenice il vecchio, lí rimase a dormire: ad Achille
piacque cosí, perché lo segua diman su le navi,
verso la patria, se vuole: ché a forza condurlo non brama».
Cosí diceva. E tutti rimasero senza parola,
stupiti ai detti suoi: sí furono fieri e gagliardi.
Muti rimasero a lungo, crucciati i figliuoli d’Acaia:
pure, alla fine, parlò Dïomede, alto grido di guerra:
«O glorioso Atríde, di genti, o Agamènnone, sire,
deh!, non avessi mai pregato il perfetto Pelíde,
mille presenti e mille offrendogli! Troppo è superbo
già di per sé: la sua superbia or tu molto eccitasti.
Dunque, lasciamolo stare, che resti o che torni alla patria.
II giorno ben verrà, che ancora alla guerra egli torni,
quando nel seno il cuore gli dica, od un Nume lo spinga
.
Ma ora, tutti, via, facciamo cosí come io dico:
sazie rendete adesso di cibo e di vino le brame,
poscia dormite: ché questo ristora le forze e il coraggio.
Poi, come Aurora appaia, le bella, ch’à dita di rose,
genti e cavalli in fretta dinanzi a le navi tu schiera,
èccitale a battaglia
, tu stesso fra i primi combatti».
Cosí diceva; e lui tutti quanti approvarono i prenci,
ché le parole del re Dïomede ammiravano. E allora,
poi ch’ebbero libato, tornarono ognuno alla tenda,
si coricarono qui, goderono i doni del sonno.

{Iliade, libro IX – traduzione di Ettore Romagnoli}

Immagine: Jean-Auguste-Dominique Ingres, Gli inviati di Agamennone