Libro XVII

Eventi principali:
Si scatena la una lotta feroce intorno al corpo di Patroclo. Ettore lo spoglia delle armi, e Glauco lo invita a portare ad Ilio il corpo, in modo da indurre gli Achei a restituire il corpo di Sarpedonte per riavere indietro quello di Patroclo. Menelao e Aiace lottano per proteggere la salma e portarla ad Achille.
Menelao manda Antiloco ad avvisare Achille che Patroclo è morto.
Intanto gli Achei riescono a sottrarre il corpo di Patroclo ai Troiani, e fuggono verso le navi.

Achei e Troiani combattono per aggiudicarsi il corpo di Patroclo
…Vibrando le lande, piombarono quelli
con urto grave, sopra gli Achivi; e speravano molto
strappare dalle mani d’Aiace il cadavere…

Menelao uccide Euforbo perché voleva impossessarsi delle armi di Patroclo. Ettore, avvisato da Apollo, vuole affrontare Menelao. Menelao corre a chiamare Aiace.

E vide Menelao, l’eroe prediletto di Marte,
Pàtroclo sotto i colpi troiani cadere in battaglia;
e tra le prime file, coperto del lucido bronzo,
presso a lui corse, come giovenca primipara, ignara
sin li del parto, va mugolando d’intorno al vitello.
Stava cosí Menelao, di Pàtroclo attorno alla salma,
e innanzi a lui tendeva lo scudo rotondo e la lancia,
pronto ad uccider chiunque venuto gli fosse di contro.
Però, neppure il figlio di Panto, il valente lanciere,
pose in oblio l’eroe caduto; ma, fattosi presso,
stette, e all’Atride cosí parlava, al diletto di Marte:
«0 Menelao, progenie divina, signore di genti,
recedi; lascia il corpo di Pàtroclo e l’armi cruente.
Niuno prima di me fra i Troiani e gl’insigni alleati
percosse con la lancia costui nella fiera battaglia:
lascia quest’altra gloria ch’io m’abbia perciò, né ti debba
vibrare un colpo, e l’alma rapirti, più dolce del miele».
E Menelao chioma bionda, crucciato, cosí gli rispose:
«Bello non è, per Giove, vantarsi con tanta iattanza!
Tanta non è di pantera la furia, non è di leone,
non di sterminatore selvaggio cinghiale, che in seno
cuore fierissimo alberga, che va di sua forza superbo,
quanto superbi sono di Panto i belligeri figli.
Pure, a Iperènore quanto giovò l’esser giovane e forte,
quand’egli, contro me lanciata l’ingiuria, m’attese?
Egli diceva ch’ero fra i Dànai tutti il più vile
nelle battaglie; e intanto tornar non potè coi suoi piedi
ad allegrar la sua sposa diletta, i diletti parenti.
Cosi, se innanzi a me ti pari, fiaccar la tua forza
anche io saprò. Nella turba ritorna, ti dico, e d’innanzi
da me lèvati, prima che qualche malanno ti tocchi:
ché l’opere seguite, vederle sa pure uno stolto».
Disse cosi. Né colui fu convinto, ma contro gli disse:
«Anzi ora, Menelao, progenie divina, dovrai
scontare il fratei mio,
che uccidesti, e lo dici, e ti vanti,
ed orba entro la casa novella rendesti la sposa,
e lutto ai genitori recasti, e ineffabile pianto.
Io, di sicuro, fine porrei di quei miseri al pianto,
se la tua testa io potessi recare con me, l’armi tue,
e nelle mani a Panto gittarle, e alla diva Frontide.
No, senza lotta oramai non sarà questa nostra contesa,
né senza prova, chi sia valoroso, o proclive alla fuga».
Poi ch’ebbe detto cosi, lo colpi nello scudo rotondo;
né pur lo franse il bronzo,
ché indietro si torse la punta
sopra lo scudo saldo. Secondo vibrò la sua lancia
l’Atride Menelao, levando la prece al Cronide;
e, lo feri mentr’egli cedea, nella gola, alla base,
e sopra il colpo poggiò, della mano seguendo l’impulso.
Passò l’aguzza punta fuor fuori pel morbido collo:
diede, cadendo, un rimbombo, su lui rintronarono l’armi,
furon di sangue intrise le chiome, che chiome di Grazie
pareano, e i ricci belli costretti nell’oro e l’argento.
Come nutrisce un uomo un florido germe d’ulivo,
in solitario loco, sgorgandovi d’acqua gran copia:
cresce leggiadro e verde, gli spiri lo fanno ondeggiare
di tutti i venti, e tutto si copre di candidi fiori;
ma d’improvviso un vento vi giunge di fiera procella,
e dal suo solco lo scalza, e a terra schiantato lo stende:
cosi, poscia che morte a Panto, al figliuolo d’Euforbo,
die Menelao, l’Atride signor, lo spogliava dell’armi.
Come allorquando un leone superbo, cresciuto fra i monti,
la più bella giovenca rapisce del branco che pasce,
poscia la sbrana e il sangue ne inghiotte e le visceri tutte:
intorno molti cani s’addensano, e molti pastori,
e levano alte grida da lungi, ché farglisi presso
nessuno ardisce: tutti son pieni di scialbo terrore:
cosi, nessuno tanto coraggio nutriva nel petto,
che faccia a faccia ardisse scontrarsi col figlio d’Atrèo.
E facilmente qui, Menelao, del figliuolo di Panto
l’armi predate avrebbe, se Febo, con invido cuore,
non l’impedia; ché contro gli spinse di Priamo il figlio.
Prese l’aspetto di un uomo, di Mente, signor dei Cicóni,
e a lui si volse, e queste gli disse veloci parole:
«Ettore, tu corri dietro a ciò che raggiunger non puoi,
dietro ai cavalli corri
del fiero nipote d’Eàco;
ma nessun uomo può cavalcarli, né al giogo domarli,
toltone Achille,
ch’è progenie di madre immortale;
e intanto, il valoroso figliuolo d’Atrèo, Menelao,
presso pugnando a Pàtroclo, uccise il miglior dei Troiani,
di Panto il figlio, Euforbo, desister lo fe’ dalla pugna».
E, così detto, il Nume tornò fra il tumulto di guerra.
E grave e fosco invase lo spirito d’Ettore il cruccio.
Volse lo sguardo lungo le schiere, e di sùbito scòrse
l’uno, che preda faceva dell’armi; ed il figlio di Xanto,
che al suol giaceva; e sangue scorrea dall’aperta ferita.
E si lanciò fra i primi, coperto del lucido bronzo,
levando acute grida, che parve una vampa d’Efesto
inestinguibile. E udí l’alte grida il figliuolo d’Atrèo;
e cosí disse, pieno di cruccio, al suo fervido cuore:
«Misero me! Le belle armi se lascio, se Pàtroclo lascio,
che, per l’onore mio pugnando qui giace, di certo
biasimo a me darà chiunque dei Dànai mi scorga:
se, da pudore vinto, con Ettore io solo combatto,
e coi Troiani, io solo sarò sopraffatto dai molti:
Ettore, l’elmo crollando, qui tutti conduce i Troiani.
Ma perché mai tali motti mi va favellando il mio cuore?
Contro il voler dei Numi se un uom contro un uomo s’azzuffi,
cui renda onore il Nume, su lui gran cordoglio s’abbatte:
perciò niuno vorrà con me degli Achivi crucciarsi,
se cedo innanzi al figlio di Priamo,
sospinto da un Nume.
Il prode Aiace dove si trova sapere io potessi!
Tornar potremmo, entrambi di nuovo riprender la pugna,
sia pur contro un Celeste, se almeno ad Achille Pelide
rendessimo la salma! Sarebbe fra i mali il minore».
Mentr’ei questi pensieri volgeva nell’alma e nel cuore,
giunser, dal figlio di Priamo guidate, le schiere troiane
Ed egli allora indietro si trasse, lasciando la salma,

spesso volgendosi indietro: parea generoso leone
che gli uomini ed i cani sospingano via da una stalla,
con gli urli e con le frecce: gli abbrivida il cuore gagliardo
nel seno, e mal suo grado si scosta dal chiuso: del pari
il biondo Menelao lontano da Paride andava.
Stette, poiché dei suoi fra le schiere fu giunto; e si volse,
cercando il grande Aiace figliuol di Telamone
; e presto,
com’ebbe il campo tutto veduto, lo scòrse a sinistra,
mentre ai compagni cuore faceva, esortandoli a zuffa:
ché Febo aveva in essi terrore indicibile infuso.
Mosse correndo, e gli fu ben presto vicino, e gli disse:
«Aiace, vieni qui, di Pàtroclo presso alla salma:
corriamo, o caro, se potessimo almeno ad Achille
recare il corpo ignudo: ché Ettore l’armi ha predate».

Cosí disse. Ed Aiace, turbato nel cuore, si spinse
oltre le prime file, col biondo figliuolo d’Atrèo.

Ettore ha spogliato il corpo di Patroclo delle armi, e le consegna ai Troiani perché le portino ad Ilio. Aiace e Memelao proteggono il corpo di Patroclo, ma Glauco insiste con Ettore perché porti via anche quello; in questo modo, pensa, gli Achei dovranno rendere il corpo di Sarpedonte per riavere indietro quello di Patroclo.


Ettore, intanto, spogliato dell’armi il figliuol di Menezio,
lo trascinava, ché il capo voleva spiccargli dal busto
,
ed il cadavere in Troia recare, da pascerlo i cani.
Ma gli fu presso Aiace, levando il suo scudo turrito.
Ond’Ettore cede’, fra le schiere dei suoi si ritrasse,

balzò nel cocchio, diede di Pàtroclo l’armi ai Troiani,
ché le recassero ad Ilio
, ché segno a lui fosser di gloria.
E, l’ampio scudo Aiace reggendo, al figliuol di Menezio
vicino stava
, come leone in difesa dei figli,
che, mentre per la selva li guida, e ancor cuccioli sono,
nei cacciatori s’imbatte: si ferma, spirando furore
e tutto il sopracciglio giú cala, a nascondere gli occhi:
cosí moveva Aiace d’intorno al compagno caduto;
e Menelao, figliuolo d’Atrèo, prediletto di Marte,
stava dall’altra parte, covando nel cuore il gran cruccio.
E Glauco, condottiero dei Liei, d’Ippòloco figlio,
bieco guardando il figlio di Priamo, gli disse a rampogna:
«Ettore, bèllo di viso, di mano del par non sei prode:
grande’è la fama tua, ma troppo sei pronto alla fuga:
provvedi ora a salvare la gente e la rocca di Troia,
solo da te, con le genti che videro in Troia la luce:
ché niuno più dei Liei combatter vorrà con gli Achivi
presso alle vostre mura, perché niuna grazia riscuote
chi senza tregua s’affronta, per voi, con le genti nemiche.
E come mai potresti salvare un guerriero dappoco,
se tu persin l’amico Sarpèdone, l’ospite tuo,
preda agli Argivi lasciasti,
lasciasti che fosse ludibrio
quei che alla rocca, a te fu scudo, mentr’egli era vivo?
E adesso i cani tu non valesti a cacciargli d’attorno.
Perciò, se ascolto alcuno mi dà dei guerrieri di Licia,
torniamo a casa; e piombi su Troia l’estrema rovina:
perché, se nei Troiani lo spirito intrepido e fiero
fosse, che colma il cuore degli uomini, quando a difesa,
di lor patria pugnando, affrontano zuffe e travagli,
tratto ben presto in Ilio sarebbe di Pàtroclo il corpo.
Se, cosí morto, giunger potesse costui su la rocca
grande di Priamo, se lui strappare potessimo al campo,
presto dovrebber gli Achèi di Sarpèdone renderci l’armi
belle, il suo corpo stesso potremmo recare dentro Ilio:

però che lo scudiere caduto è d’un uomo, il più forte
tra quanti sono Argivi; né valgono meno i compagni.
Ma non avesti cuore di star fronte a fronte ad Aiace,
tu, non ardisti negli occhi fissarlo fra gli urli nemici,
né contro lui pugnare; ché troppo è di te più gagliardo».
Ettore Io guardò biecamente, e cosí gli rispose:
«Glauco, perché, quello essendo che sei, parli tanto arrogante?
Misero me! Per senno credevo che tu superassi
tutti, quanti hanno patria la Licia dai fertili campi;
ma troppo or biasimare ti devo per ciò che tu dici.
Dici che cuore non ho d’attendere Aiace feroce”!
Non sono io, quei che tema la pugna e il fragor dei cavalli:
ma ognor vince il volere di Giove, dell’ègida sire,
che sbigottisce sovente, che toglie la gloria ai pili prodi
agevolmente, e spesso li spinge egli stesso alla lotta.
Ma vieni presso a me, rimani al mio fianco, o diletto,
giudica tu la prova, se vile io sarò tutto il giorno,
come tu dici, o se alcuno dei Dànai, sia pur valoroso,
frenar saprò, che pugna di Pàtroclo spento a difesa».

Ettore indossa le armi di Achille e con i Troiani muove contro Aiace e Menelao. Menelao chiama altri Achei a soccorso.


E, cosí detto, esortò, levando un grande urlo, i Troiani:
«Troiani, Liei, e voi, valenti a combatter da presso
Dàrdani, uomini siate, pensate a combattere, amici,
sino ch’io l’armi indossi d’Achille, guerrier senza pecca,
le belle armi, predate da me, poi che Pàtroclo uccisi».
E, detto ch’ebbe ciò, lontan dalla cruda battaglia
Ettore mosse, l’elmo crollando; e, movendo a veloci
passi, raggiunse i suoi compagni, e non erano lungi,
che l’armi belle ad Ilio, recavan d’Achille Pelide.
E quivi le indossò,
lontan dalla zuffa crudele,
e die’ le proprie a quelli, perché le recassero ad Ilio.
Ed ei tutte le membra recinse con l’armi immortali
del figlio di Pelèo. Le avevano i Numi d’Olimpo
date a Pelèo: Pelèo le diede al suo figlio diletto;
ma non doveva il figlio nell’armi del padre invecchiare.
E vide allora Giove che i nugoli aduna, da lungi,
ch’egli indossava l’armi del divo figliuol di Pelèo,
e mormorò cosí nel suo cuore, crollando la testa:
«Misero te, che in mente neppure ti passa la morte,
che tanto è a te vicina!
Tu l’armi indossasti immortali
d’un uom prode fra i prodi, di cui treman pure tanti altri:
al suo compagno mite gagliardo tu desti la morte,
senza riguardo, via degli omeri l’armi e dal corpo
tu gli strappasti. Ora io conceder ti voglio gran gloria,
che ti compensi; perché, quando tu tornerai dalla pugna,
l’armi d’Achille famose, da te non avrà la tua sposa».
Disse, e chinò le azzurre sue ciglia il figliuolo di Crono,
e su le membra adattò l’armi ad Ettore. E l’orrido Marte
s’infuse a lui nel seno, terribile; e pieni i precordi
furon di forza e d’ardire; e verso gl’insigni alleati,
con un grande urlo mosse, comparve fra loro improvviso,
tutto lucente nell armi d’Achille
magnanimo cuore.
E tutti, ad uno ad uno, coi detti spronava alla zuffa:
Glauco, d’Ippòloco figlio, Medonte, Tersiloco, Meste,
Asteropèo, Desènore, Fòrcide, Cromio, Ippotòo,
ed Ènnom
o, d’augelli l’interprete esperto. Costoro
egli incitava, e a tutti volgeva volanti parole:
«Innumere tribù dei vicini alleati, ora udite:
non per avere con me, per bramare gran copia di genti,
qui dalle vostre città v’ho fatti venire, uno ad uno,
ma perché voi dagli Achivi bellicosi voleste schermire
con pronto cuor, le spose troiane, ed i teneri figli.
Perciò tributi e offerte dal popolo esigo, e lo sposso,
per mantenere voi, perché non vi manchi lo zelo.
Per questo, ognun di voi diritto si volga al nemico,
e vinca, oppur soccomba: ché questo è il colloquio di guerra.
E chi potrà la salma portare di Pàtroclo in Troia,

e a lui ceder dovrà di Telàmone il nobile figlio,
a lui darò metà delle spoglie, serbando a me l’altra:
sarà cosí fra noi partita ugualmente la gloria».
Disse cosi. Vibrando le lande, piombarono quelli
con urto grave, sopra gli Achivi; e speravano molto
strappare dalle mani d’Aiace il cadavere. Stolti!
ché su quel corpo a molti rapì quel gagliardo la vita.

E al prode Menelao disse allor di Telàmone il figlio:
«0 caro, o Menelao progenie di Giove, non spero
più che noi due potremo tornar dalla stretta di guerra.
Né tanto per la salma di Pàtroclo io temo, che presto
dovrà saziare i cani di Troia, saziare gli uccelli,
quanto per la mia vita temo io, per la tua, che non corra
grave periglio: tal nube di guerra d’intorno ci stringe
Ettore: ancora su noi s’addensa l’estrema rovina.
Su via, chiama i più prodi fra i Dànai, se alcuno ci ascolta
».
Disse. Né sordo fu Menelao valoroso all’invito,
e con un alto grido così si rivolse agli Achivi:
«Amici, o voi, signori, che a lotta guidate gli Argivi,
quanti presso all’Atride Agamènnone e al biondo fratello
libate i vini ch’offron le genti, e di genti è ciascuno
signore, e Giove ad esso concede l’onore e la gloria,
è dura cosa che i duci debba io rintracciare uno ad uno
mentre sì fiera avvampa la furia di guerra. Su, dunque,
venga ciascuno da sé,
vergogna Io colga, che debba
in Troia esser ludibrio la salma di Pàtroclo ai cani
».
Si disse. E bene Aiace l’udiva, il figliuol d’Oilèo,
e primo venne a lui di mezzo alla mischia, correndo:
Idomenèo dopo lui correva, correa lo scudiero
d’Idomenèo, Merióne, che Marte omicida sembrava.
E chi degli altri poi ricordar tutti i nomi potrebbe,
che, dopo essi, la zuffa di nuovo animar degli Achivi?

I Troiani mettono in fuga gli Achei e trascinano via il corpo di Patroclo. Ma poi Aiace li insegue e riesce a riprenderglielo; la zuffa riprende. Apollo spinge Enea alla lotta.


Vennero prima i Troiani, precorsi da Ettore, all’urto.
Come allorché su la foce d’un fiume divino, un gran flutto
l’acqua che sbocca investe mugghiando, e da entrambe le parti
rugghiano i lidi, e fuori vomiscono l’acqua del mare:
con simile frastuono moveano i Troiani; e gli Achivi
stavano d’un sol cuore dinanzi al figliuol di Menezio,
dietro una fitta siepe di scudi di bronzo; e il Cronide
effuse densa nebbia d’intorno ai loro elmi lucenti:

ché neppur prima gli era discaro il figliuol di Menezio,
sinché fu vivo, fu scudier del nipote d’Eàco;
e non soffrí che fosse ludibrio alle cagne troiane,
ed i compagni eccitò, che per lui si lanciarono a lotta.
Prima i Troiani respinser gli Achivi dagli occhi lucenti.
Lasciato il corpo, indietro si volsero a fuga; né alcuno
ne uccisero i Troiani,
per quanto ne avessero brama,
ma trascinavano via la salma. Ma stettero poco
lungi gli Achivi; ché, a farli rivolgere, presto giungeva
il Telamonio Aiace
, che, dopo il perfetto Pelide,
tutti d’aspetto, tutti d’imprese vinceva gli Achei.
E tra le prime schiere si mosse; e sembrava un cinghiale
che sovra i monti, a un tratto, volgendosi in mezzo alle macchie,
agevolmente i cani scompiglia, e i fiorenti garzoni.
Agevolmente cosi, di Telàmone il fulgido figlio,
cosi sperdeva Aiace, le fitte falangi troiane
che s’addensavano al corpo di Pàtroclo attorno, e speranza
grande nutriano, in Troia di trarlo, d’averne alta gloria.
Ippòtoo quivi, il figlio fulgente di Lete pelasgo,
stretto al mallèolo, ai tèndini attorno, col bàlteo l’aveva,
e per un piede via trascinando l’andava pel campo,
ché dei Troiani e d’Ettore ambiva la grazia; ma presto
su lui giunse il malanno, che niuno, benché lo bramasse,
valse a schermire. Aiace, su lui fra le turbe piombando,
da presso lo colpi,
traverso l’elmetto di bronzo!
L’elmo crinito si franse d’intorno alla punta dell’asta,
della gran lancia all’urto, del braccio possente; e il cervello
sanguinolento, schizzò lungo il manico, fuor dalla piaga.
E qui la forza sua fiaccata si giacque: di mano
lasciò sfuggire a terra di Pàtroclo il piede; ed a terra
anch’esso a lui vicino piombò, sul cadavere, prono,
ben lungi di Larissa dai fertili campi; e mercede
ai genitori suoi non rese: ché presto compiuta
fu la sua vita, sotto la lancia d’Aiace animoso.
Ettore allor contro Aiace vibrò la sua lucida lancia.
Ma quegli che ben vide, per poco la lucida punta
potè schivare;
e quella colpi del magnanimo Ifíto
il figlio, Scedio, ch’era fra tutti i Focesi il più prode,
ed abitava, signore di popoli molti, in Panòpe.
Di sotto gli colpí la clavicola: il cuspide sommo
passò fuor fuori, uscí dall’omero, presso allo stremo:
diede cadendo un frastuono, su lui rimbombarono l’armi.
Aiace, poi, colpí di Fènope il figlio, Forcíno,
ch’era in difesa accorso d’Ippòtoo, nel mezzo del ventre.
Ruppe la piastra nel mezzo, s’immerse nei visceri il ferro;
disteso egli piombò, brancicando la polvere, a terra.
Ettore indietro si trasse; e quanti primi erano in zuffa
ruppero in alte grida, gli Argivi traendo le salme
di Forci e d’Ippotòo, spogliandone i corpi dell’armi.
E qui, certo, respinti dai forti d’Acaia, i Troiani,
offesi da viltà, sarebbero in Ilio tornati,
e per la forza e il valore, pur contro il volere di Giove,
avrebber gloria avuta gli Argivi. Ma Apollo egli stesso
spinse alla pugna Enea.
L’aspetto del figlio d’Epíto
assunto aveva il Dio, di Perifate mente assennata,
che presso il vecchio padre, facendo l’araldo, invecchiava.
Simile a questo, Apollo, figliuolo di Giove, gli disse:
«Enea, come potreste, pur contro il volere di Giove,
salvar l’eccelsa Troia? L’han fatto, e l’ho visto, altre genti,
che nella loro forza fidavan, nel loro coraggio,
e nella copia di genti, pur contro il volere di Giove;
ed ora vuole Giove che vostra e non già degli Achivi
sia la vittoria; ma voi tremate, ma voi siete imbelli».
Cosí diceva. Enea conobbe, vedendolo, il Nume,
Febo,
che lungi saetta, e ad Ettore disse, gridando:
«Ettore, e voi che Troiani guidate e alleati alla pugna,
vergogna è questa, se, per la vostra viltà sopraffatti,
tornar dovrete ad Ilio, fugati dai prodi d’Acaia.
Ma ora, uno dei Numi venuto me presso, m’ha detto
che in nostro aiuto Giove combatte
, il signor dei Celesti.
Contro gli Achei perciò moviamo, né senza contrasto
possan recare il corpo di Pàtroclo ai concavi legni».
Disse. E d’un lancio balzò fra quei che pugnavano primi;
e si rivolsero quelli, piantandosi contro gli Achivi.
Qui con la lancia Enea trafisse il figliuol d’Ariobante
di Licomède il fedele compagno, Leòcrito. E grande
pietà, come lo vide cader, n’ebbe il prò’ Licomede;
e stette presso a lui, scagliò la sua lucida lancia,
e Apísone colpí, sovrano, figliuolo d’Ippàso,
sotto i precordi, nel fegato, e sùbito morto lo stese.
ch’era venuto dalla Peonia dai pascoli pingui,
e dopo Asteropèo, primo era fra tutti in battaglia.
Asteropèo pietà provò, che cadere lo vide,
e di gran cuore contro gli Achivi si spinse a pugnare:
ma nulla ei più poteva: ché fitti assiepavan gli scudi,
tendevan l’aste, mentre pugnavano a Pàtroclo intorno.
E presso a tutti, Aiace andava con mòniti molti,
e comandava che niuno movesse lontan dalla salma
,
che niun si distaccasse per correre avanti alla zuffa,
ma tutti a lui daccanto restassero fermi a pugnare.
Cosíl’immane Aiace gridava; e bagnata la terra
era di rosso sangue: ché fitti cadevano i morti,
sia dei Troiani, sia dei lor valorosi alleati,
e degli Achei
: neppur questi pugnavano immuni da strage,
ma ne cadevano meno: ché sempre badavano tutti
l’uno a schermir la vita dell’altro, nel fiero conflitto.
Cosí dunque la pugna ferveva, e pareva un incendio:
né sole avresti detto che qui più brillasse, né luna:
ed erano avvolti tutti di nebbia quanti eran più prodi
campioni, al corpo attorno di Pàtroclo in zuffa confusi.

Gli altri Troiani poi, gli altri Achèi da le belle gambiere,
senza tal mora, a cielo sereno pugnavan: del sole
si diffondeva acuta la luce, né al piano né al monte
nuvola alcuna appariva. Pugnavan; ma spesso una tregua
era alla zuffa; e i dardi schivavano l’uno dell’altro,
stando lontani; ma molto pativano gli altri nel mezzo,
quanti eran più gagliardi, pel buio, pel cozzo di guerra,
per gli spietati colpi del bronzo. Due soli fra tanti,
due valorosi guerrieri, Trasímede e Antlloco, ignari
eran di tutto, ancora: pensavan che Pàtroclo vivo
fosse, che contro i guerrieri di Troia fra i primi pugnasse;
e dei compagni schermendo la vita, evitando la fuga,
pugnavancf in disparte: ché a pugna li aveva esortati
Nestore, quando lontano li spinse dai negri navigli.
Ma tutto il giorno per gli altri durava la guerra accanita
della battaglia; e, affranti, grondavano sempre sudore
dalle ginocchia giù, dagli stinchi ciascuno, dai piedi:
n’erano i visi tutti, le mani imbrattate, mentre essi
pur combattevano, al corpo d’intorno di Pàtroclo prode.
E come quando un uomo consegna la pelle d’un toro,
madida tutta di grasso, per farla stirare, ai garzoni:
presala quelli, chi qua, chi là, la distendono in giro,
e l’umidore presto ne stilla, la pènetra il grasso
per il tirare di tanti, sinché tutta quanta si stende:
cosi, nel breve spazio, la salma tiravano quelli,
di qui, di lì:
speranza nutrivano Achivi e Troiani,
quelli di trascinare la salma dentro Ilio, gli Achivi
verso le concave navi: selvaggia infuriava la zuffa
dattorno a lui; né Marte che incita i guerrieri, né Atena,
per quanto irata, opporsi, vedendo tal zuffa, poteva.
Tale quel giorno Giove d’intorno al figliuol di Menezio
duro travaglio tendeva di fanti e cavalli; né ancora
sapeva il divo Achille che Pàtroclo spento giaceva,

poiché pugnavan molto lontan dalle rapide navi,
sotto le mura di Troia; né punto credeva che spento
fosse, ma vivo, e che avesse raggiunte le mura di Troia
e poi fosse di là tornato: poiché ben sapeva
ch’ei né da solo Troia potrebbe espugnare, né seco:
ché molte volte udito l’avea dalla madre in segreto,
che fatto aveva a lui palese il consiglio di Giove;
ma non gli avea predetto il male seguito, che spento
era l’amico suo, diletto fra tutti i compagni.
E senza posa quelli, vibrando le lancie affilate,
stavano intorno alla salma pugnando, l’un l’altro uccidendo;

e alcuno degli Achivi coperti di bronzo, diceva:
«Amici, non sarà bella fama per noi, ritornare
presso le concave navi: no, prima ci còpra qui tutti
la negra terra: questo sarà molto meglio per noi,
se questa salma dovremo lasciare ai guerrieri troiani,

che nella loro città la rechino, e n’abbiano gloria».
E d’altra parte, cosí diceva talun dei Troiani:
«Se pure vuole il Fato che presso a quest’uomo cadere
tutti dobbiamo, amici, nessuno abbandoni la pugna».
Cosí dicea taluno, negli altri eccitava la furia.
Cosí dunque costoro pugnavano; e un ferreo clamore
su, fino al bronzeo cielo, volava pel vuoto dell’aria.

I cavalli di Achille piangono la morte dell’auriga e impietosiscono Giove, che li protegge. Ettore spinge Enea ad impossessarsene. Attaccano Automedonte e Alcimedonte, che guidano il carro. Automedonte uccide Arete. Ettore lo vuole colpire, ma fallisce.


E dalla zuffa intanto lontani, i corsieri d’Achille
stavan versando pianto, poi ch’ebber saputo che spento,
d’Ettore sotto ai colpi, giacea nella polve l’auriga.

Invano Automedonte, di Diore il prode figliuolo,
li andava stimolando, battendo con l’agile sferza,
or con blandizie ad essi volgendosi, ed or con minacce.
Essi, né indietro tornare, su l’ampio Ellesponto, alle navi,
né fra gli Achei tornare volean, dove ardeva la pugna.
Ma, come ferma sta colonna, che sopra una tomba
sorge diritta, d’un uomo defunto, di donna defunta,
saldi essi stavano, immoto reggendo il bellissimo carro,
figgendo al suol recline le teste; e scorrevano a terra
lagrime calde, dai cigli: per brama del loro signore
piangeano; e s’imbrattava al suolo la folta criniera,
giù dal collare effusa, da un lato e dall’altro del giogo.
Pianger li vide, e a pietà fu mosso il figliuolo di Crono,
e scosse il,capo, e queste parole rivolse al suo cuore:
«Miseri, perché mai vi demmo al sovrano Pelèo
mortale, voi che siete immuni da morte e vecchiezza:
forse perché dobbiate soffrir fra gli umani infelici?
Perché davvero, nulla più misero esiste dell’uomo,
fra quanti esseri sopra la terra hanno vita e respiro.
Ma pure, non potrà sopra voi, sopra il lucido carro,
Ettore figlio di Priamo balzare: ché io nol consento
.
Ch’egli abbia l’armi forse non basta, e che vanto ne meni?
Tanto v’infonderò vigore nell’alma e nei piedi,
che salvo Automedonte portiate lontan dalla pugna,
presso le concave navi:
ché gloria tuttora ai Troiani
concederò, sinché non sian giunti alle navi librate,
e il sol tramonti, e scenda sul mondo la tènebra sacra».
Detto cosi, spirò gagliardo vigor nei corsieri.
Essi scrollarono via dalle chiome la polvere al suolo,
e fra i Troiani e gli Achei veloci portarono il carro.
E quivi Automedonte, sebbene crucciato, pugnava,
come avvoltoio fra l’oche, scagliandosi innanzi col carro:
ché di leggeri poteva schivar dei Troiani il tumulto,
e di leggeri poteva piombar fra le turbe all’assalto;
ma uccider non poteva, quando ei le inseguiva, le genti;
ché solo era sul carro divino; e possibil non era
reggere insieme i veloci corsieri, e vibrare la lancia.
Pure, alla fine, su lui lo sguardo rivolse un compagno,
Alcimedonte, il figlio del figlio d’Emóne, Laerce,
e dietro il carro stette, cosí la parola gli volse:
«Automedonte, e quale dei Sùperi il senno ti tolse,
e in cuor questo disegno ti pose, che util non reca,
che nelle prime file cosí tu combatta da solo
contro i Troiani? Il tuo compagno fu spento; e superbo
Ettore va, ché le membra si cinse dell’armi d’Achille».
Automedonte a lui, di Diore figlio, rispose:
«Alcimedonte, e chi altri potrebbe, fra tutti gli Achivi,
regger la furia, e a freno tenere i corsieri immortali,
come quand’era vivo l’eroe pari ai Numi nel senno,
Pàtroclo? Ora su lui piombaron la Parca e la Morte.
Ma su, tu prendi adesso la sferza e le lucide briglie,
ed io discenderò, per prendere parte alla mischia».

Disse. Ed Alcimedonte balzò sopra il carro di guerra
velocemente, in pugno stringendo le briglie e la sferza.
Automedonte a terra balzò giù dal carro; e lo vide
Ettore tosto; e ad Enea si volse
, che gli era da presso:
«Enea, tu che i Troiani dall’arme di bronzo consigli,
i due cavalli ho visti d’Achille dal piede veloce,
che son, da tristi aurighi guidati, comparsi nel campo.
Ed io speranza avrei, se tu desiderio ne avessi,
d’averli in nostra mano: ché certo, se noi ci avventiamo,
non oseranno starci di fronte, e appiccare la zuffa».
Disse cosí: né il prode figliuolo d’Anchise fu tardo.
E mosser l’uno e l’altro, con gli òmeri avvolti di salde
aride pelli di bue, su cui spesso stendevasi il bronzo.
E insiem con essi, Cromio, e Arète, divino all’aspetto,
ivano a pari; e grande speranza nutrivano in cuore
di uccidere quei due, di predare i superbi cavalli.
Stolti! Né ritornare dovean senza spargere sangue:
ché Automedonte al padre Cronide rivolse una prece.
Pieno il profondo seno senti di vigore e di forza,
e cosí disse ad Alcimedonte, diletto compagno:
«Alcimedonte, lungi da me non tenere i cavalli:
alle mie spalle fa’ che sbuffino: ch’io ne son certo,
non frenerà la sua furia di Priamo il figlio, se prima
non ci abbia entrambi uccisi, balzato non sia sui corsieri
dai bei crini, d’Achille, non abbia le schiere d’Acaia
rivolte in fuga, oppure non cada egli stesso fra i primi».
E cosi, detto, chiamò Aiace, chiamò Menelao:
«Aiace, e tu che a pugna conduci gli Achei, Menelao,
ora il cadavere a quelli che son più valenti affidate,
che stiano intorno a lui, respingan le schiere nemiche,
e lunge il di fatale tenete da noi che siam vivi:
perché nella battaglia di pianti feconda, pressura
Ettore con Enea, dei Troiani i più forti, qui fanno.
Ma sopra le ginocchia dei Numi riposan gli eventi;
la lancia io vibrerò; e Giove a ogni cosa provveda».
Disse cosi, vibrò, lanciò la lunghissima lancia,
e colpi Arete
a mezzo lo scudo rotondo; né al colpo
resse la piastra; e passò fuor fuori la punta di bronzo,
e per la cintola via s’infisse nel basso del ventre.
Come la scure affilata talor vibra un giovine forte
dietro alle corna d’un bove selvatico, e i tèndini tutti
recide a un colpo, e quello di un balzo giù piomba: del pari
quegli, balzando avanti, supino piombava; e la lancia
entro le viscere acuta vibrando, la vita gli tolse.
Ettore allor contro Automedonte vibrò la sua lancia;
ma quei che ben lo vide, schivò la punta di bronzo,

chinando il capo innanzi. Di dietro la bronzea lancia
si conficcò nel suolo: rimase oscillando l’estremo,
e a poco a poco poi si franse la furia di Marte.
E con la spada qui l’un su l’altro sarebbe piombato,
se sopra loro, a spartirli, non fossero giunti gli Aiaci,
che, del compagno all’appello, corsi eran di mezzo alle turbe.
E per timore, allora, di nuovo si trassero indietro
Ettore
, e Cromio che aveva l’aspetto d’un Nume, ed Enea,
Arete qui giacente lasciando, col cuore squarciato.
E Automedonte, l’eroe che in impeto Marte agguagliava,
dell’armi lo spogliò, pronunciò questi detti di vanto:
«Davvero, un poco adesso, per quanto abbia ucciso un da meno,
lenita ho nel mio cuore la doglia di Pàtroclo spento».
E, cosí detto, gittò sul carro le spoglie cruente,
ed egli stesso su vi balzò, con le mani ed i piedi
insanguinati, come leone che un toro ha sbranato.

Giove manda Atena ad incoraggiare gli Achei. Menelao uccide Pode (cognato di Ettore), ed Ettore vuole affrontarlo. Giove favorisce i Troiani.


E attorno ancor la pugna si strinse al figliuol di Menezio,
feroce, lagrimosa
: ché Atena eccitava la rissa,
scesa dal cielo: mandata l’aveva il possente Cronide,
per eccitar gli Achivi: ché s’era voltato il suo cuore.

Come allorquando l’iri purpurea Giove dispiega
dal firmamento ai mortali, perché sia segnacol di guerra,
o di tempesta, che l’aria fa gelida, che dei bifolchi
l’opera a mezzo interrompe nei campi, e contrista le greggi:
cosi dentro una nube di porpora ascosa, la Diva
s’insinuò fra gli Achèi,
ridestando in ognuno l’ardire.
E la parola prima rivolse al figliuolo d’Atrèo,
al prode Menelao, che presso le stava; ed assunto
aveva di Fenice l’aspetto e la voce mai stanca:
«Certo, per te, Menelao, sarà disonore ed obbrobrio,
se sbraneranno i cani voraci il fedele compagno
dell’ammirando Achille, sottesse le mura di Troia!».
E a lui disse cosí Menelao, prode all’urlo di guerra:
«Fenice, o vecchio annoso mio padre, deh!, infondere forza
volesse Atena in me, da me tener lungi le freccie!
Resistere io vorrei, difendere Pàtroclo, allora,
perché la morte sua m’è giunta nel cuore profondo.
Ma Ettore ha la furia del fuoco tremenda, né resta
mai dalla strage: ché a lui concede or la gloria il Cronide».
Cosí disse. E godè la Diva dagli occhi azzurrini,
perché lei prima avesse fra tutti i Celesti invocata.
E nelle spalle e nelle ginocchia vigore gli pose,
e in seno ardir tenace gl’infuse
, quale della mosca,
che più la scacci, e più ritorna alla carne dell’uomo,
avida, a punger, ché il sangue dell’uomo le par troppo dolce.
Lo spirto fosco a lui colmò di consimile ardire.
E presso a Pàtroclo giunto, vibrò la sua fulgida lancia.
Era fra i Teucri un tal Pode, figliuol d’Ezióne. Valente
egli era, e ricco; e lui su tutti i guerrieri onorava
Ettore: ch’era compagno diletto di zuffe e di mensa.
Questo colpiva sotto la cintola il buon Menelao,
mentre volgeasi a fuga, passò la corazza di bronzo.
Diede un rimbombo cadendo: la salma il figliuolo d’Atrèo
via dai Troiani portò, trascinandola, in mezzo ai compagni.
E Febo allora, presso facendosi ad Ettore, disse —
e assunto avea l’aspetto di Fènope Asiade, caro
più d’ogni altro ospite a lui, che aveva dimora in Abido —
di questo, dunque, assunto l’aspetto, cosí gli parlava:
«Chi altri, Ettore, mai, vorrà degli Achivi or temerti,
se il solo Menelao temesti, creduto finora
fiacco guerriero! Vedi che adesso di sotto ai Troiani
leva da solo una salma, che uccise il tuo fido compagno,
Pode, figliol d’Ezione, che prode fra i primi pugnava».
Disse. Ed avvolto fu quello da un nuvolo negro di cruccio,
e tra le prime file si spinse,
lucente di bronzo.
E allor, l’egida, tutta guizzante di frange, abbagliante,
prese il Cronide,
e ascose fra i nembi la vetta dell’Ida,
e folgorò, levando terribile romba, e la scosse,
e die’ vittoria ai Teucri, gittò negli Achei lo sgomento.
Primo fuggi Penelèo di Beozia: colpito di lancia
fu ne la spalla, mentre volgeva la fronte al nemico.
Colpito a sommo fu; ma l’osso pur giunse a scalfirgli
Polidamante: ché questi colpito l’aveva da presso.
Ettore, poi, da presso, nel carpo feri della mano
d’Alettrióne magnanimo il figlio. Restò dalla pugna,
quegli, e fuggì, dattorno volgendo lo sguardo: ché oltre
più non presunse la lancia tenere, pugnar coi Troiani.
E Idomenèo percosse, mentr’ei s’avventava su Leito,
Ettore nell’usbergo, sul petto, vicino a una mamma;
ma si spezzò nel puntale la lancia; ed un grido i Troiani
alto levarono. Ed Ettore un colpo contro Idomenèo
Deucalidèo vibrò, mentre egli scendeva dal carro.
Di poco lo sbagliò: colpi lo scudiere e l’auriga
di Merione, Cerano
. Seguito l’aveva da Litto:
ché a piedi egli da prima, lasciate le rapide navi,
era venuto; e dato qui avrebbe alto vanto ai Troiani,
se non spingeva a lui presso Cerano i veloci cavalli.
Come una luce giunse per lui, lo salvò dalla morte;
ma d’Ettore omicida mori sotto il colpo egli stesso:
di sotto gli colpi la mascella e l’orecchio: la punta
i denti via schizzò, recise nel mezzo la lingua.
Piombò dal carro giù, lasciò a terra cadere le briglie.
E Merione a terra si chinò, raccolse le briglie
con le sue mani, e ad Idomenèo la parola rivolse:
«Sferza i cavalli, adesso, finché non sii giunto alle navi:
vedi da te, che adesso non è degli Achei la vittoria
!».
Si disse. E Idomenèo sferzava i veloci cavalli
verso le concave navi: ché preso l’aveva il terrore.

Aiace vede che Giove favorisce i Troiani; Menelao manda Antiloco, il figlio di Nestore, ad avvisare Achille che Patroclo è morto.


Né il segno era di Giove sfuggito al magnanimo Aiace,
né a Menelao, quando il Nume concesse la gloria ai Troiani:

onde cosí parlò di Telàmone il figlio possente:
«Miseri noi, vedere potrebbe sinanche uno stolto
che il padre Giove adesso sostiene egli stesso i Troiani:
a segno i dardi loro van tutti, chiunque li scagli,
sia valoroso o da poco: ché Giove alla mira li guida;
ma dalle mani a noi, tutti irriti cadono al suolo.

Su via, dunque, noi stessi cerchiamo il partito migliore,
onde sottrarre il corpo si possa ai nemici, e tornare
noi stessi, e dar col nostro ritorno conforto agli amici
che son crucciati, qui vedendoci, e niuno ha speranza
che d’Ettore omicida si sfugga alle mani, alla furia;
ma certo è che qui tutti morremo fra i negri navigli.
Deh!, se pur qualche amico recasse la nuova al Pelide,
prima ch’ei possa: ch’egli finora non sa, nulla intese,
della funesta nuova, che spento è il compagno suo caro.
Ma tra gli Achei non posso distinguer chi acconcio sarebbe,
perché son dalla nebbia nascosti essi stessi e i cavalli.
Deh!, Giove padre, sottrai dalla nebbia i figliuoli d’Acaia,
fa’ che il sereno torni, che possano gli occhi vedere:
se morti pur ci vuoi, fa’ che almen nella luce si muoia
».
Cosí gemeva. Ed ebbe pietà del suo pianto il Cronide.
Sùbito sperse via la caligine, e scosse la nebbia
;
e il sole scintillò, tutta quanta si vide la pugna.
E Aiace allora al buon Menelao volse queste parole:
«Or cerca, Menelao, progenie di Numi, se vivo
vedi tuttora il figlio di Nestore Antiloco; e digli
che, quanto prima può, si rechi ad Achille, e gli dica
che morto giace quegli che amò sopra tutti gli amici
».
Cosí disse. E l’invito fu pronto a seguir Menelao.
E quindi mosse, e parve leon che abbandona una stalla:
che, poi che stanco è fatto, lottando coi cani e i pastori,
che, tutta notte desti, contrasto gli han fatto, che grassa
preda facesse dei bovi — s’avventa egli pure per brama
ch’à delle carni, e a nulla riesce, ché incontro zagaglie
volano fitte a lui, lanciate da mani gagliarde,
volan fascine accese: per quanto feroce ei le teme —,
all’alba infine lungi si volge ed il cuore gli piange.
Cosi, lontano andava da Pàtroclo il buon Menelao,
a mal suo grado: troppo temea che i guerrieri d’Acaia
per quel terrore lui lasciassero preda ai nemici.
E Merione molto, e molto ammoniva gli Aiaci:
«Aiaci, che a battaglia guidate gli Achèi, Merióne,
ora della bontà del misero Pàtroclo, ognuno
abbia memoria: seppe con tutti, sin ch’egli fu vivo,
esser soave: e adesso l’ha còlto il Destino di morte».
Il biondo Menelao, si scostò, come questo ebbe detto,
e d’ogni intorno l’occhio rivolse, ed un’aquila parve
che, dicono, ha la vista più acuta di tutti gli uccelli,
e non le sfugge, per alta che voli, una lepre veloce
che si rimpiatti sotto fronzuto cespuglio, ma sopra
si lancia a lei, l’afferra di bòtto, e le toglie la vita.
Cosí del pari a te roteavano gli occhi fulgenti,
o Menelao, d’ogni parte cercando, se mai fra le schiere
dei tuoi compagni, tu vedessi di Nestore il figlio.
E sùbito lo scorse,
che stava a sinistra del campo,
ed esortava i compagni, spingeva le genti alla pugna.
Il biondo Menelao vicino gli stette, e gli disse:
«Antiloco, progenie divina, vien qui, ché tu oda
una funesta sciagura — cosi, deh!, seguita non fosse! —
Già da te stesso, credo, se guardi, potrai ben vedere
che rotolare il Nume sui Dànai fa la sciagura,
sui Teucri la vittoria; ma inoltre, il più forte dei nostri,
Pàtroclo è spento, e di lui gran brama fra i Dànai rimane.
Presto, alle navi adesso tu corri, e l’annuncio ad Achille
reca, se pure ei voglia qui correre, e salvo alle navi
recare il corpo ignudo: ché l’armi son d’Ettore preda
».
Disse. Ed Antiloco, udendo, fu còlto d’un brivido; e a lungo
restò, senza parola poter profferir. Di pianto
colmi gli furono gli occhi, la voce restò nella strozza.
Ma non per questo pose l’invito in oblio dell’Atride,
e ratto mosse, l’armi lasciando a Laòdoco, fido
compagno suo, che presso spingeva i veloci cavalli.
Cosi, piangendo, a passi veloci lasciava la zuffa,
ché la novella triste recava ad Achille Pelide.

Intanto Menelao e Aiace e Merione cercano il modo di sottrarre il corpo di Patroclo ai Troiani, e ci riescono; lo sollevano e lo portano verso le navi, fuggendo. I Troiani, capeggiati da Ettore e da Enea, li inseguono, ma gli Aiaci li tengono a bada.


Né pur tu, Menelao, progenie dei Numi, volesti
restare ivi, a soccorso di quegli ambasciati compagni,
poscia che Antiloco fu partito, lasciando tra i Pili
di sé gran brama. A questi lasciò Trasimede forte,
ed egli corse ancóra vicino al figliuol di Menezio,
e qui stette, e parlò veloci parole agli Aiaci:
«Antiloco ho spedito, che presso le rapide navi
rechi la nuova ad Achille
dai piedi veloci; né quegli
credo, verrà, per quanto contro Ettore avvampi di sdegno:
—ché in guerra non potrà senz’armi affrontare i Troiani.

E noi qui, dunque, adesso, cerchiamo il partito migliore
onde sottrarre il corpo si possa ai nemici, e torniamo
noi stessi, a dar col nostro ritorno, conforto agli amici».
E il grande Aiace, il figlio cosí di Telàmone disse:
«Inclito Menelao, fu ben tutto quanto dicesti.
Via, Merione e tu ponetevi sotto alla salma,
e dalla mischia lungi recàtela: a tergo frattanto
noi pugnerem coi guerrieri troiani,
con Ettore prode:
ché uguale il nome, uguale vantiamo il coraggio; ed abbiamo
l’un presso all’altro, altre volte già retto alla furia di guerra».
Cosí diceva. E quelli levar su le braccia la salma,
alta dal suolo. E levò grande urlo lo stuol dei Troiani,
come vider gli Achèi sollevare di Pàtroclo il corpo.
E si slanciarono;
e cani parevan, che, innanzi correndo
ai cacciatori, s’avventano sopra un cinghiale ferito,
che gli si fanno presso, che fare lo vogliono a brani;
ma come contro loro si volge il gagliardo, all’istante
balzano indietro, e chi qua, chi là si disperde tremando.
Similemente i Troiani su quelli correvano a schiere,
e con le spade via li colpivan, con l’aste affilate;
ma come contro ad essi volgevan la fronte gli Aiaci,
trascolorare i volti vedevi, e nessuno avea cuore
di farsi innanzi,
e presso la salma appiccare la zuffa.
Cosi, pieni d’ardore, portavan lontan dalla pugna,
presso le navi, il corpo:
su loro infieriva la guerra.
Come se investe il fuoco selvaggio città popolosa,
che d’improvviso sorge, divampa, e diroccan le case
dentro la fiamma immensa, ruggendo la furia del vento:
similemente su loro corsieri piombavan, guerrieri,
con incessante frastuono; ma pure, avanzavano quelli.
L’Atride e Merione parevan due muli robusti,
che traggon giù dal monte, per aspro sentiero di rocce,
o trave, o tronco grande di nave: stanchezza e sudore
ad essi, mentre svelti procedon, lo spirito opprime.
Cosí quei due di lena portavano il corpo; ed a tergo
stavan gli Aiaci a riparo,
come argin selvoso, che, steso
traverso alla pianura, trattiene la furia dell’acqua,
i rovinosi gorghi trattiene dei fiumi gagliardi,
sùbito la corrente di tutti devia, li respinge
alla pianura, ché invano fluiscon di forza, a spezzarlo.
Sempre cosí gli Aiaci tenevano indietro la furia
dei Teucri; e questi ognora premevano; e due più che gli altri;

Enea, figlio d’Anchise, ed Ettore fulgido. E tutti,
come uno stuolo fugge di storni o uno stuolo di corvi,
con orrido schiamazzo, se giungere vede da lungi
uno sparviere, che strage far suole di piccoli augelli:
tutti cosi, dinanzi ad Ettore e al figlio d’Anchise,
con orrido schiamazzo fuggivan gli Achivi, in oblio
posta la pugna; e molte bell’armi d’intorno alla fossa
caddero in quella fuga; né pure avea tregua la pugna.

{Iliade, libro XVII – traduzione di Ettore Romagnoli}

Immagine: Antoine Wiertz, Greci e Troiani si contendono il corpo di Patroclo