Libro IV

Eventi principali:
Gli dei si radunano per decidere le sorti della battaglia. Giove vorrebbe terminarla con la vittoria di Menelao e risparmiare così le vite dei Troiani; ma Era e Atena non sono d’accordo perché odiano i Troiani. Lo scontro riprende e gli Achei dapprima avanzano, ma Apollo incoraggia i Troiani a non lasciarsi sopraffare.

Concilio degli dèi; Giove vorrebbe porre fine alla guerra di Troia, ma Atena ed Era, che sono offese con i Troiani, non sono d'accordo.
Or noi pensiamo quale sarà degli eventi la fine:
se guerre, ancora, ancora dobbiamo eccitare funeste
pugne, o far sí che regni fra gli uni e fra gli altri amicizia.
Se piace a tutti questo partito, se grato riesce,
conservi la città di Priamo ancor la sua gente,
e Menelao con sé conduca la femmina d’Argo…

Gli dei si radunano per decidere le sorti della battaglia. Giove vorrebbe terminarla con la vittoria di Menelao e risparmiare le vite dei Troiani; ma Giunone e Atena non sono d’accordo perché odiano i Troiani.

E presso Giove, intanto, raccolti sedevano i Numi,
sul pavimento d’oro: di nèttare empieva le coppe
Ebe, la Dea veneranda, per essi; e brindavano tutti
entro le coppe d’oro, mirando la rocca di Troia.
Ed il Croníde tentò di pungere il cuor di Giunone,
senza rivolgersi a lei, con queste mordaci parole:
«Sogliono sempre due Dive soccorrere il pro’ Menelao:
Era l’Argiva, e Atena che guarda Alalcòmene: entrambe
ora, però se ne stanno, sedute in disparte, a godere.
Presso Alessandro, invece, l’amica del riso Afrodite
sempre sta, sempre lo segue, da lui tiene lungi la morte;
ed or salvato l’ha, quando già credea certa la fine.
Sicuramente, è però la vittoria del pro’ Menelao.
Or noi pensiamo quale sarà degli eventi la fine:
se guerre, ancora, ancora dobbiamo eccitare funeste
pugne, o far sí che regni fra gli uni e fra gli altri amicizia.

Se piace a tutti questo partito, se grato riesce,
conservi la città di Priamo ancor la sua gente,
e Menelao con sé conduca la femmina d’Argo.
Disse cosi. Le labbra si morsero Atena e Giunone,
sedute presso a lui, che volevano il mal dei Troiani.
Atena restò muta, non disse una sola parola,
fremendo contro il padre di sdegno e di bile selvaggia;
ma non contenne lo sdegno Giunone, parlò, cosí disse:
«Quale parola hai detto, possente figliuolo di Crono?
Dunque, la mia fatica vuoi rendere inutile e vana,
vano il sudore ch’io, stancando i cavalli, ho versato,
quando raccolsi le turbe a Priamo infeste e a suoi figli?
Fa’ pur; ma gli altri Numi di ciò non vorranno lodarti».
E Giove, adunatore di nembi, crucciato, rispose:
«Cuore implacato, di’, quali mai grandi offese t’han fatto
Priamo, e i figli suoi, che t’arde implacabile brama
d’Ilio veder, la rocca dai solidi muri, distrutta?
Se valicar le porte potessi, e l’eccelse sue mura,
e divorare crudo re Priamo e i suoi figli, e i Troiani
tutti, sarebbe forse placata la furia che t’arde.
Fa’ pur ciò che tu vuoi: ché questa contesa non debba
per te, per me, divenire soggetto di fiera discordia.

Un’altra cosa però ti dico, e ricordala bene:
se mai qualche città vorrò poi distruggere anch’io,
quale che sia, dove gente dimori diletta al tuo cuore,
non trattenere il mio sdegno, ma lasciami libero: anch’io
a malincuore, quanto bramavi, t’ho pure concesso:
perché niuna città, fra quante son d’uomini albergo,
sotto la luce del sole, le stelle fulgenti del cielo,
tanto solea d’onori colmarmi, quanto Ilio la sacra,
e Priamo, e il popol tutto di Priamo maestro di lancia:
ché mai sull’ara mia non mancarono vittime opime,
né libagioni, né omento, che a noi sono debite offerte».
E a lui cosí rispose Giunone dall’occhio fulgente:
«Tre sono le città che piú predilige il mio cuore:
Argo, Sparta, e Micene, che vanto ha d’ampissime strade:
quando al tuo cuore odiose divengano, struggile pure,
ché io non le vorrò difendere, oppormi a tue bràme:
ché già, se pur volessi che fossero salve, ed oppormi,
nulla ottener potrei: ché troppo di me sei piú forte.
Ma pur, l’opera mia non dev’essere inutile e vana,
ché me l’accorto Crono colmò piú che ogni altra d’onore,
perché prima d’ogni altra son nata, perché tua consorte
sono chiamata, e tu sei signore degli uomini tutti.
Dunque, intervenga adesso reciproco accordo fra noi:
io cedo a te, tu a me: dovranno seguire l’esempio
gli altri Celesti. E tu da’ l’ordine presto ad Atena
che scenda ove gli Achei si azzuffan con gli uomini d’Ilio,
e tenti se per prima la gente di Troia non franga
il giuramento
stretto coi prodi magnanimi Achivi».

Giove, su suggerimento di Giunone, manda Atena a provocare i Troiani


Disse cosí Giunone. Degli uomini il padre e dei Numi
accondiscese; e volse veloci parole ad Atena:
«Non indugiare, va’ giú fra i Troiani e gli Achivi schierati,
e tenta se per prima la gente di Troia non franga
il giuramento stretto coi prodi guerrieri d’Acaia».
Disse; ed Atena eccitò, che già tutta ardeva di brama,
e con un lancio giú si scagliò dalle vette d’Olimpo.
Come talvolta il figlio di Crono saggissimo, un astro
scaglia, ai nocchieri erranti lucente prodigio, e ad un folto
stuolo di genti: attorno gli sprizzano fitte scintille:
simile a questo, alla terra s’avventò giú Pallade Atena.
Fra le due schiere piombò: stupore percosse, a vederla,
i cavalieri troiani, gli Achei da le belle gambiere;
e l’uno all’altro andavan cosí favellando i vicini:
«Certo la cruda guerra, di nuovo, e la pugna funesta
divamperanno, oppure la pace fra gli uni e fra gli altri
Giove stabilirà, che fra gli uomini porta la guerra».
Iva cosí dicendo ciascun degli Achei, dei Troiaini;
e Atena, assunte d’uomo sembianze, movea fra i Troiani:
di Laödòco assunte le forme
, del prode figliuolo
d’Antènore, cercava se Pàndaro a sorte trovasse.
E lui, di Licaòne perfetto, gagliardo figliuolo,
trovò, che in piedi stava: d’intorno stringevansi fitte
le genti sue, venute dai rivi d’Esèpo a seguirlo.
Presso gli stette, e a lui queste alate parole rivolse:
«Di Licaòne figlio sagace, vuoi tu darmi ascolto?
Osa scagliare un dardo veloce sul pro’ Menelao:
merito grande e gloria ne avrai presso tutti i Troiani;

e ti sarà piú grato d’ogni altro il sovrano Alessandro:
súbito egli vorrà compensarti con fulgidi doni,
quando vedrà Menelao, d’Atrèo valoroso rampollo,
dalla tua freccia trafitto, salire sul rogo fatale.
E volgi a Febo, al licio signor delle cuspidi, un voto,
che avrà d’agnelli nati di fresco una insigne ecatombe,
quando tornato sarai alla sacra città di Zelea».

Pandaro, persuaso da Atena, colpisce Menelao con una freccia. Ma Atena lo protegge e rimane solo ferito.


Cosí la Diva Atena parlando, convinse lo stolto.
Súbito l’arco estrasse. Dei corni d’un capro selvaggio
fatto era, ch’ei medesimo aveva trafitto nel fianco,
stando all’agguato, mantre balzava giú da una rupe:
l’avea colpito al petto: caduto rovescio era il capro.
Lunghe sul capo aveva le corna ben sedici palmi:
bene acconciate entrambe le aveva l’artefice esperto,
e, rese lisce, d’oro vi avea sovrapposto l’anello.
Strinse agli estremi il nervo, per tenderlo, e a terra lo pose:
gli scudi innanzi, a schermo, tenevano i fidi compagni,
perché su non balzassero i prodi figliuoli d’Acaia,
pria che colpito fosse il figlio d’Atrèo, Menelao.
Dalla faretra, poi, levato il coperchio, uno strale
ne tolse, alato, nuovo, radice di negri cordogli.
Poscia, quando ebbe adattata sul nervo la freccia funesta,
rivolse a Febo, al licio signor delle cuspidi, il voto
che avrà d’agnelli nati di fresco una insigne ecatombe
quando tornato sarà nella ricca città di Zalèa.
E strinse, e tese insieme la cocca ed il nervo di cuoio:
a la mammella accostò la corda, la cuspide a l’arco:
ed ecco, quando al pari d’un cerchio fu teso il grande arco,
l’arco fischiò, la corda levò clangore alto, la freccia
cuspide acuta balzò, di volar fra le turbe bramosa.
Però, di te, Menelao, scordati non s’erano i Numi.
E prima fu la figlia di Giove, la Dea predatrice,
che, stando a te dinanzi, sviò l’amarissimo dardo.
Essa lo tenne lontano da te, come quando una madre
scaccia una mosca dal figlio, che posa in un dolce sopore,
e lo sviò, lo spinse dov’era da fibule d’oro
stretta la cintola bella, sí ch’ivi era doppio l’usbergo.
L’amaro dardo, qui si piantò, su la stretta cintura;
e traversò la bella cintura fuor fuori, l’usbergo
forò, tutto cosparso di fregi, e la lamina salda
che il re portava sopra la pelle, riparo dei dardi,
che l’avea spesso salvato; ma fu traversata anche quella
da parte a parte; e il dardo scalfí proprio a sommo la pelle;
e dalla piaga tosto sgorgò, nero e fumido, il sangue.
Come allorché l’avorio di porpora tinge una donna
meonia, oppur di Calia, per fare le borchie a una briglia,
e giaccion poi riposte: vorrebbero assai cavalieri
averle; e quelle, invece, rimangon serbate al sovrano,
che se n’adorni il corsiere, che n’abbia fulgor chi lo guida:
cosí parvero tinti di sangue i tuoi femori saldi,
o prode Atríde, i tuoi mallèoli schietti, e gli stinchi.
E tutto abbrividí Agamènnone re degli Atrídi,
come dalla ferita sgorgar vide livido il sangue:
anch’egli abbrividí Menelao, quando fuor dalla piaga
i ganci e il fil mirò che la punta legava alla canna,
l’alma gli refluí, con un tuffo improvviso, nel petto.
Ed Agamènnone re, levando un lamento doglioso,
disse, al fratello stringendo la mano; e piangevano tutti:
«Caro fratello, i patti per te furon patti di morte,
quando volesti, a pro’ degli Achivi, pugnar coi Troiani:
t’hanno cosí colpito, franti hanno i lor giuri, i Troiani!
Vani però non sono né giuri, né sangue d’agnelli,
né libagioni, né le destre che a fede stringemmo:
perché, sebben puniti non li ha su l’istante il Croníde,
li punirà più tardi: dovranno essi stessi scontare
a caro prezzo il fio, le loro consorti ed i figli.
Ché bene io questo so, me lo dicono il cuore e la mente;
giorno verrà che cadrà la rocca santissima d’Ilio,
e il re Priamo, e la gente di Priamo, di lancia maestro;
e Giove che dall’alto governa, il figliuolo di Crono
a cui dimora è l’ètra, su tutti, a punire l’inganno,
l’ègida crollerà sua fosca: tal fine essi avranno.
Ma fiera ognor sarà per te, Menelao, la mia doglia,
se tu muori, se qui si compie il destin di tua vita.
E ad Argo sitibonda scornato io dovrò ritornare —
ché subito gli Achei sentiranno desio de la patria —
e a Priamo ed ai Troiani lasciar, che ne menino vanto,
Elena argiva; e tu, senza avere compiuta la gesta;
in Troia giacerai, l’ossa tue marciranno pei campi.
E dire allora ognuno potrà dei superbi Troiani,
del glorioso re Menelao calpestando la tomba:
— Deh!, che la furia sua su tutti Agamènnone sfoghi
come or, che invano addusse l’esercito qui degli Achivi,
ed alla casa dove’ di nuovo tornare, alla reggia
con le sue navi, qui lasciando il fratel Menelao! — .
Tutti cosí diranno. Deh!, allora sotterra io già fossi!»
Ma cosí disse, per fargli coraggio, il buon re Menelao:
«Fa’ cuor, non sgomentare le turbe cosí degli Achivi:
non m’ha l’acuto dardo forata la carne profonda:
schermo dinanzi è stata la lucida cintola, e sotto
la lamïera, e la fascia temprata dagli abili fabbri».
E a lui queste parole rivolse Agamènnone sire:
«Deh!, se davvero fosse cosí, mio diletto fratello!
Ché Macaóne potrà medicar la tua piaga, e sovra essa
farmachi porre, che a te leniscan lo spasimo crudo».
Poscia, a Taltibio araldo si volse con queste parole:
«Taltibio, chiama qui, come prima tu puoi. Macaóne,
figlio d’Asclepio, del sommo fra i medici tutti, ché veda
il mio fratello, il figlio d’Atrèo, Menelao valoroso,
come qualcuno l’ha saettato, maestro dell’arco,
troiano o licio: vanto per lui, per noi tutti, cordoglio».
Cosí disse. L’udí, né fu tardo a ubbidire l’araldo,
e fra le schiere girò degli Achei loricati di bronzo,
a ricercar l’eroe Macaóne. Stava esso nel campo,
e stretti a lui d’attorno i saldi guerrier che da Trica
altrice di cavalli, venuti eran seco a la gesta.
Standogli presso, queste parole veloci gli disse:
«Sorgi, d’Asclepio figlio: ti chiama Agamènnone sire,
perché tu veda il prode signore d’Achei Menelao,
come l’ha saettato qualcuno, maestro dell’arco,
troiano o licio: vanto per lui, per noi tutti, cordoglio».
Cosí disse; e riscosse lo zelo nel cuor dell’eroe,
che fra le schiere mosse, per mezzo all’esercito achivo.
E come giunser poi dove re Menelao chioma bionda
giacea ferito, e intorno gli stavano tutti i piú prodi,
fra loro s’inoltrò quell’uomo di mente divina.
Dalla cintura che i fianchi stringeva pria tolse la freccia,
e nell’estrarla, indietro si videro i ganci piegarsi.
Poi la cintura sciolse, che tutta fulgeva, e di sotto
la lamïera e la fascia temprata dagli abili fabbri.
E quando vide, ov’era dischiusa dal dardo, la piaga,
il sangue ne succiò, la cosperse di farmachi blandi,
che dati un dí gli avea, per amor di suo padre, Chirone.

Ricomincia la guerra tra Achei e Troiani. Agamennone incita i suoi a combattere.


Ora, mentre erano intesi d’intorno al buon re Menelao,
ecco, le schiere innanzi venian dei Troiani; e gli Achivi
tornati entro i lor valli, di nuovo apprestaron la pugna.

Né sonnacchioso allora veduto Agamènnone avresti,
né trepidante, né tale che contro sua voglia pugnasse:
ma s’affrettava verso la pugna che gli uomini esalta.
Il cocchio abbandonò lucente di bronzo, e i cavalli:
tenne i cavalli in disparte, sbuffanti, il valletto Erimède,
figlio di Tolomèo, rampollo di Pèride: a questo
di stargli ingiunse sempre vicino, se mai la stanchezza
non gli vincesse i piedi, pel troppo girar fra le schiere.
Ed egli andava a piedi, movendo cosí fra le genti;
e quanti degli Achei vedeva affrettarsi alla pugna,
ad essi la parola volgeva, cosí l’incorava
:
«Non desistete, Achivi, dal cozzo furente di guerra,
ché non vorrà Giove padre proteggere mai gli spergiuri;
ma quelli che per primi spezzarono i patti giurati,
dovranno gli avvoltoi sbranarne le membra disfatte,
e noi le spose ad essi dilette, ed i pargoli infanti
sopra le navi addurremo, poiché sarà Troia espugnata».
Ma quanti poi vedesse lasciare la pugna funesta,
rampogne fiere ad essi volgeva
, ed irose parole:
«O prodi sol da lungi, pudor non avete, o codardi?
Perché siete cosí sbigottiti? Sembrate cervette,
che, quando molto han corso pei campi, si fermano stanche,
perché non hanno in petto coraggio: del pari sgomenti
siete rimasti voi, né piú combattete. I Troiani
forse aspettate, che qui sian giunti, ove fanno riparo,
sopra la spiaggia del mare canuto le rapide navi?
Forse volete vedere se Giove su voi tien le mani?».
Imperïoso, cosí girava fra tutte le schiere.
E giunse ov’era un grande tumulto di genti, e d’intorno
al prode Idomenèo si stringevano in arme i Cretesi.
Idomenèo moveva fra i primi, e pareva un cinghiale
per la ferocia: spingeva Meríone l’ultime schiere.
Li vide, e si allegrò Agamènnone re degli Achivi,
e queste a Idomenèo veloci parole rivolse:
«Te piú che i Dànai tutti maestri di prodi corsieri,
io pregio, Idomenèo, nella guerra, o in quale opra si voglia,
e nel banchetto, quando, raccolti i signori d’Acaia,
temprano dentro i cratèri il vino che annoso scintilla.
Perché degli altri Achivi chiomati, ciascuno tracanna
la parte sua; ma sempre son colmi il tuo calice e il mio,
dinanzi a noi, per bere, qualora ci venga la voglia.
Muovi alla pugna: e sii qual pure tu d’essere hai vanto».
Il duce Idomenèo rispose con queste parole:
«A te di certo, o figlio d’Atrèo, sarò fido compagno,
come t’ho pur dianzi promesso e giurato; ma gli altri
eccita adesso tu chiomati guerrieri d’Acaia,
perché presto alla guerra si lancino. Han franto i Troiani
il giuramento: perciò li attendono morte e cordoglio,
quando essi han vïolato per primi la fede giurata».
Cosí disse; e l’Atríde mosse oltre, gioendo nel cuore.
E giunse ove era un grande tumulto d’intorno agli Aiaci.
S’armavano essi entrambi: con loro di genti era un nembo.
Come allorché dall’alta vedetta montana, un capraro
vede una nube che avanza, da Zefiro spinta, sul mare;
l’osserva egli, e da lungi piú negra gli par della pece,
mentre sui flutti corre, guidando furor di procelle:
l’invade un gelo, e dentro lo speco sospinge la greggia:
similemente i forti guerrieri nutriti da Giove
all’odiosa guerra moveano d’intorno agli Aiaci,
fitte falangi brune, tutte irte di lancie e di scudi.
Li vide, s’allegrò nel cuore il figliuolo d’Atrèo,
e ad essi favellò, rivolse veloci parole:
«Aiaci, o condottieri d’Achei loricati di bronzo,
d’uopo non è ch’esorti voi due, né vi dica parola:
bene sapete da voi le genti esortare a prodezza.
Deh!, Giove padre, e Dio che lungi saetti, ed Atena,
se tale tutti quanti nel seno chiudessero un cuore!
Allora sí, che presa dovrebbe cader, saccheggiata
sotto le nostre mani, la rocca di Priamo eccelsa!».
E, cosí detto, qui lasciatili, ad altri si volse.
E Nèstore trovò, l’oratore dei Pilî facondo,
che disponeva a schiere, spronava i compagni alla zuffa;
e Pelagóne a lui d’intorno, ed Alàstore, e Cromio,
e col possente Emóne, Biante pastore di genti.
I cavalieri avanti schierava coi carri e i cavalli,
ed i pedoni in coda piú forti, perché negli scontri
fossero baluardo: spingeva nel mezzo i piú fiacchi,
sicché, pur contro voglia, combatter ciascuno dovesse.
Ai cavalieri prima parlò: li esortò che i corsieri
frenassero, perché non mettesser le turbe a scompiglio:
«Né per sfoggiare i cavalli veruno, o per troppo d’ardire
davanti ai suoi compagni s’avanzi a combattere solo;
né mai si faccia indietro: ché presto sarete allor vinti.
E chi, balzato giú dal suo carro, affrontar deve un carro,
tenda allo scontro la lancia, ché meglio riesce la prova.
Cosí gli antichi nostri, con tale coraggio nel petto,
con tali accorgimenti, cittadi espugnavano e rocche».
Dunque, cosí li eccitava l’antico maestro di guerra.
E molto s’allegrò Agamènnone re, che lo vide,
e, a lui parlando, queste rivolse veloci parole:
«O vecchio, deh!, se forti cosí come il cuore nel petto
tu le ginocchia avessi, se avessi vigor nelle membra!
Ma la vecchiaia che niuno risparmia, or t’abbatte. Potesse,
deh!, prendersela un altro, lasciandoti il fiore degli anni!».
E a lui rispose il vecchio Gerenio, maestro di guerra:
«Anche io, di certo, anche io, tale essere, Atríde, vorrei,
qual fui quando il divino Ereutalïone trafissi;
ma tutti insieme i doni non offrono i Numi ai mortali:
giovine allora fui, m’opprime or la tarda vecchiaia.
Ma, cosí pure, starò fra i miei cavalieri, e conforti
da me, consigli avranno: ché cómpito è questo dei vecchi;
e vibreranno intanto le lancie i piú giovani, tanto
piú vigorosi di me, che salda han la possa del braccio».
Cosí disse. L’Atríde trascorse, col giubilo in cuore.
E Menestèo trovò, di Petio figliuol, di cavalli
maestro; e intorno a lui, d’Atene i sagaci guerrieri.
E stava Ulisse a questi vicino, l’eroe tanto scaltro.
Dei Cefallèni attorno, non fiacche gli stavan le schiere;
ma non volgevano ancora la mente al clamore di guerra,
perché Troiani e Achivi lanciati allo scontro di guerra
s’erano adesso adesso. Sostavano dunque, attendendo
che degli Achei qualche altra falange movesse all’attacco,
contro i Troiani, e avesse principio cosí la battaglia.
Li vide; e, volto ad essi, l’Atríde signore di genti,
questa rampogna rivolse, parlando veloci parole:
«O tu, figlio di Pètio, signore nutrito dai Numi,
e tu, sperto di tutti gl’inganni, scaltrissima mente,
perché state in disparte, nascosti, ad attendere gli altri?
Anzi, voi due dovreste ben saldi fra i primi trovarvi,
ed affrontare primi la fiamma di guerra: ché primi
anche solete udire l’invito ch’io faccio al banchetto,
quando offrono un convito le genti d’Acaia ai primati.
Le carni arrosto allora gustare vi piace, e le tazze
vuotar, sin che c’è voglia, di vino piú dolce del miele!».
Ulisse lo guardò biecamente, e cosí gli rispose:
«Quali parole, Atríde, t’uscîr dalla chiostra dei denti?
Come puoi dire ch’io schivi la guerra? Fa’ tu che gli Atrídi
sui cavalieri troiani si lancin con l’urlo di guerra,
e tu vedrai, se voglia n’hai tu, se vederlo ti preme,
mischiato tu vedrai di Telèmaco il padre fra i primi
dei cavalieri troiani. Ma tu spargi chiacchiere al vento».
Ed Agamènnone re, vedendolo irato, rispose:
«O di Laerte figlio divino, scaltrissimo Ulisse,
rimproverarti piú non intendo, né darti consiglio:
ché nella mente tua, da sé, lo so bene, il tuo senno
ciò che bisogna fare comprende; e tu vuoi ciò ch’io voglio.
Via, se qualche parola spiacevole adesso t’ho detta,
poi ne faremo ammenda: ne sperdano i Numi il ricordo».
E, cosí detto, qui lasciatili, ad altri si volse.
Ed il figliuolo trovò di Tidèo, Dïomede superbo,
che tra i cavalli stava, tra i solidi cocchi di guerra.
Di Capanèo vicino gli stava il gagliardo figliuolo.
Stènelo; e s’adirò, vedendolo quivi, l’Atríde;
e, a lui, parlando, queste parole veloci rivolse:
«Ahimè, figlio del prode Tidèo, domator di cavalli,
ché ti rimpiatti, ché stai guardando la lizza di guerra?
Caro al cuor di Tidèo non era, cosí rimpiattarsi,
ma, precedendo i suoi compagni, affrontare il nemico.
Cosí dicea chi all’opra lo vide: ch’io mai non lo vidi,
né m’imbattei con lui: fra tutti, diceano, era primo.
Ospite, senza armati, giunse egli una volta a Micene,
con Poliníce divino, per quivi raccogliere gente;
ch’essi di già contro Tebe divina mossi erano a campo.
Molto pregarono lí, per avere sí prodi alleati.
E pronti erano quelli, disposti alle loro richieste,
ma li distolse Giove, mandando funesti presagi.
Or, poi che furono mossi, già innanzi nel loro cammino,
vicino ai letti d’erbe dell’Àsopo, ai fitti giuncheti,
un’ambasciata quivi mandaron gli Achivi a Tidèo,
per invitarlo. Egli andò, e molti trovò dei Cadmèi,
raccolti entro la casa d’Etèocle forte, a banchetto.
E qui, sebbene estràneo, Tidèo domator di cavalli,
non sbigottí, sebbene fra tanti Cadmèi solo fosse:
anzi, a tenzone tutti sfidatili, tutti li vinse
agevolmente: cosí gli fu soccorrevole Atena.
Ora i Cadmèi, di cavalli maestri, salirono in ira;
e quando egli partí, condotti cinquanta guerrieri,
gli tesero un agguato. Due furono duci all’impresa,
Mèone, figlio d’Emóne, che un Nume sembrava d’aspetto,
e Polifonte, figlio d’Antífone saldo a la pugna.
Ma trista sorte incombe’ su tutti, mercè di Tidèo:
tutti li uccise: un solo lasciò che tornasse al suo tetto:
lasciò Mèone: a ciò l’indusser dei Numi i prodigi.
Tal fu Tidèo d’Etolia; però diede vita ad un figlio
minor di lui nei fatti, sebbene piú pronto di lingua».
Cosí diceva. E nulla rispose il Tidíde gagliardo
alla rampogna del re, perché reverenza lo tenne.
Di Capanèo glorïoso invece rispose il figliuolo:
«Non dire, Atríde, cose che vere non sono, e lo sai.
Noi ci vantiamo che siamo di molto migliori dei padri.
Noi la rocca espugnammo di Tebe settemplice; e poca
la gente fu che sotto le solide mura adducemmo;
ma ci affidava il presagio dei Numi, e il valore di Giove.
Invece, per la loro stoltezza perirono quelli:
per questo, il pregio loro non mettere a pari col nostro».
Ma bieco lo guardò Dïomede gagliardo, e rispose:
«Stolto, non dire piú oltre, a quello ch’io dico obbedisci.
Non io m’adirerò col sommo dei principi Atríde,
quando egli a guerra esorta gli Achei dai fulgenti schinieri;
perché la gloria avremo con lui, se i guerrieri d’Acaia
vincer potranno i Troiani, le mura di Troia espugnare,
con lui l’amaro lutto, se vinti saranno gli Achivi.
Orsú, dunque, anche noi corriamo ove infuria la pugna».
Disse; e dal cocchio a terra balzò, tutto chiuso nell’armi;
e nel balzare, il bronzo squillò sopra il petto del duce,
terribilmente, che avrebbe percosso ogni cuore piú ardito.

Achei e Troiani si scontrano; morti e feriti


Come allorché su la spiaggia, che tutta risuona, del mare,
un cavallone sorge, cui Zefiro spinge ed accresce:
prima, nel piano del mare si leva: con alto frastuono
contro la spiaggia poi si spezza, e d’intorno agli scogli
curvo s’innalza, colmeggia, via spruzza la schiuma ed il sale:
cosí l’una su l’altra moveano dei Dànai le schiere
alla battaglia, senza mai tregua:
ciascuno dei duci
gli ordini dava; e muti movevano gli altri: né tanta
turba tu detto avresti che fiato chiudesse nel petto:
parola non s’udiva, ché i duci temevano; e lampi
versicolori dall’armi sprizzavano. Invece, i Troiani,
come s’addensan, per essere munte, le pecore, a mille
a mille, entro la stalla d’un uomo opulento, e belati
levano senza mai tregua, quand’odon la voce dei figli:
tal dalle fitte schiere troiane sorgeva tumulto;
ché non lo stesso accento né avevan la stessa loquela,
ma d’ogni parte accozzate le genti, le lingue commiste.
E Marte li eccitava e Atena dagli occhi azzurrini,
ed il Terrore, la Fuga, la Rissa che mai non si placa,
la Rissa, ch’è compagna di Marte omicida, e sorella,
che piccola da prima si vede levarsi, ed al cielo
poi con tutta la testa poggia, premendo coi piedi la terra.
Essa fra loro gittò la furia che tutti dissenna,
moltiplicò, fra le turbe movendo, degli uomini il pianto.
E quando l’una all’altra vicine fûr giunte le schiere,
un cozzo quivi fu di lancie, d’usberghi, di scudi,
di bellicosa furia
. Si videro i grandi palvesi
congiungersi nell’urto, levandosi fiero frastuono.
E di trionfo grida sorgevano insieme, e lamenti
di vincitori e di vinti: di sangue scorreva la terra.

Come allorché, di neve rigonfi, dai vertici alpestri
scendono i fiumi, e la piena dell’acque in un solo ricetto
versano, giú dalle grandi sorgive, in un concavo abisso,
ed il pastore n’ode, lontano pei monti, la romba:
tali dei combattenti quivi erano il cozzo ed il grido.
Qui, prima Antíloco uccise di Tàliso il figlio, Echepòlo
prode che, chiuso nell’arme, pugnava fra i primi Troiani:
ché lo colpí sul frontale dell’elmo ondeggiante di crini.
Si conficcò nella fronte, per l’osso forato, al cervello
giunse la punta di bronzo, fûr gli occhi di tenebre avvolti
e giú, come una torre, piombò nella cruda battaglia.
Lui caduto, afferrò pei piedi Elefènore prode,
di Calcodonte figlio, signor dei magnanimi Abanti;
e lo traeva lungi dai dardi, per cupida brama
di far súbita preda dell’arme; e fûr brevi i suoi passi.
Ché Agenore lo vide, mentr’ei trascinava il defunto,
e lo colpí con la lancia sul fianco, ché mentre ei moveva
curvo, difeso piú dallo scudo non era, e lo spense.
L’alma cosí perde’. Su lui di Troiani e d’Achivi
aspra s’accese allora la zuffa: parevano lupi
lanciandosi all’assalto, con l’uomo affrontandosi l’uomo.
Il Telamonio Aiace ferí qui Simesio, figliuolo
d’Antènore, gagliardo, nel fiore degli anni. La madre
lo generò, del Simèto vicino alle sponde: era quivi
a sorvegliar le greggi discesa coi suoi genitori;
e lo chiamaron perciò Simesio. Né al padre, alla madre,
render pote’ le cure: ché presto compie’ la sua vita;
e dalla lancia d’Aiace magnanimo cadde trafitto,
che lo colpí mentr’egli moveva. La lancia di bronzo
sotto la mamma destra s’infisse, ed uscí da la spalla.
E a terra egli piombò, nella polvere, pari ad un pioppo
che dritto e liscio cresce nel mezzo d’un’ampia palude:
qui le radici; e i rami si spaziano altissimi in cielo;
ed un maestro di carri lo taglia col lucido ferro,
per poi curvarlo, e farne la ruota d’un fulgido carro;
e giace arido il tronco, del fiume vicino alle sponde.
Cosí percosse Aiace divino il figliuolo d’Antemio,
Simesio. E fra le turbe, di Priamo il figlio guerriero
Àntifo, contro lui vibrò la sua lunga zagaglia,
né lui colpí; ma Leuco, d’Ulisse diletto compagno,
nell’anguinaia colpí, mentre via trascinava un defunto.
Ei sovra il morto piombò, ché il corpo di mano gli scórse.
Ed ecco, d’ira il cuore d’Ulisse avvampò per l’ucciso.
Dove le prime schiere pugnavano, mosse, fulgente
tutto nel bronzo, avanti si fece, lanciò la zagaglia
vibrando attorno gli occhi. Si fecero lungi i Troiani,
mentre quel prode il colpo vibrava. Né il colpo fu vano:
Democoónte colpí, di Priamo figlio bastardo,
ch’era d’Abído giunto, sui rapidi suoi corridor.
Ulisse lo colpí, crucciato pel morto compagno,
sopra una tempia; e uscí fuor fuori la punta di bronzo
dall’altra tempia: buio si stese a coprirgli le ciglia
diede cadendo un rimbombo, su lui rintronarono l’armi.

Gli Achei dapprima avanzano, ma Apollo incoraggia i Troiani a non lasciarsi sopraffare.


E si ritrassero i primi guerrieri con Ettore prode.
Alto innalzaron clamore gli Achei, lunge trassero i morti,
e avanti molto piú si spinsero
. E Apollo, volgendo
gli occhi su Pergamo, d’ira fu pieno, e si volse ai Troiani:
«Scuotetevi, su via, Troiani, e dinanzi agli Argivi
più non fuggite
! La pelle di pietra non han, né di ferro,
da rintuzzare, quando li offenda, la furia del bronzo!
Neppur combatte Achille, vedete! Di Tètide il figlio,
cova, presso le navi, la bile che il cuore gli rode».
Febo terribile disse cosí dalla rocca; e la figlia
di Giove, la famosa, la diva Tritònide, mosse
ad eccitar gli Achivi,
dovunque cedessero il campo.
Quivi la Parca abbatté Diòre figliuol d’Amaranco.
Colpito fu da un sasso tutto aspro allo stinco sinistro,
presso al malleolo: scagliato l’aveva d’Ìmbraso il figlio,
Peiròo, ch’era qui d’Àino venuto alla testa dei Traci.
I tendini anche e l’ossa sfracellò l’immane macigno;
cadde l’eroe nella polve rovescio, ed entrambe le palme
tendéa verso gli amici, traendo l’estremo respiro.
E sopra allor Peiróo gli fu, che l’aveva colpito,
e presso all’umbilico gl’immerse la lancia: l’entragne
tutte si sparsero a terra, sugli occhi gli corse la notte.
Ma contro Peiróo che indietro balzava, Toante
Ètolo sotto la mamma, vibrò la sua lancia: la punta
si conficcò nel polmone. Toante, venutogli accosto,
la grande asta dal petto strappò, trasse fuori la spada,
e in mezzo al ventre un colpo vibrò, che gli tolse la vita.
Ma non pote’ spogliarlo: d’intorno gli furono i Traci
dall’irte chiome, in pugno stringendo le lunghe zagaglie;
e, sebben grande ei fosse, gagliardo, d’aspetto tremendo,
lungi lo tennero; ed egli dove’ furibondo ritrarsi.
Cosi, l’un presso l’altro rimasero a terra giacenti.
i condottier degli Achei loricati di bronzo, e dei Traci,
e spenti attorno ad essi giacevan molti altri guerrieri.

Davvero, chi si fosse trovato presente a tal gesta,
chi, dalle piaghe inferte da lungi o da presso, non tocco,
quivi si fosse aggirato, e Pallade Atena, per mano
presolo, lungi da lui tenesse la furia dei colpi,
misera dir non avrebbe potuto la zuffa: tal copia
d’Achivi e di Troiani riversa giacea ne la polve.

{Iliade, Libro IV – traduzione di Ettore Romagnoli}

Immagine: Giovanni Lanfranco, Concilio degli dèi